Ovunque ci sono macerie e case rase al suolo. Sulle strade sventrate è stata sparsa della sabbia per far circolare le auto. A due mesi dal cessate il fuoco, che ha messo fine a undici giorni di conflitto, il tempo sembra sospeso a Gaza. La ricostruzione non è ancora iniziata. Mancano soldi, materiale. Gli abitanti fanno fatica a tornare ad una vita normale. A Sheikh Zayed, nel nord della Striscia, Yazeed Abu Safieh ci accoglie in una piccola tenda, ai piedi di quello che resta di un edificio di sette piani. Il caldo è soffocante. È difficile immaginare com’era questo posto prima dei bombardamenti. “È stato distrutto tutto la sera dell’Eid al Fitr, il giorno in cui celebriamo la fine del Ramadan – racconta Yazeed –. Eravamo da mio padre quando un aereo israeliano ha colpito il palazzo… e per fortuna. Se fossimo rimasti a casa, ora saremmo tutti martiri”. Tra le macerie ci sono dei cartelli su cui sono stati scritti dei nomi. “Servono a indicare che ci abitava qualcuno”.
Una dozzina di edifici sono stati ridotti in briciole nei dintorni. Un’intera famiglia – i Tanani, padre, madre incinta e quattro figli – è morta sotto le macerie. “Si preparavano a abbandonare la loro casa durante i bombardamenti. Ma il nostro palazzo è stato colpito ed è crollato sopra di loro”, continua Yazeed, gli occhi lucidi. I soccorritori sono arrivati solo dopo dodici ore. “Mio padre ha cominciato a costruire questo palazzo quando aveva 15 anni – racconta ancora -. Ci ha messo dentro tutti i suoi soldi, tutta la sua vita. E in un attimo è svanito tutto, senza un motivo”. Yazeed e la sua famiglia ora affittano un appartamento anche grazie all’aiuto in denaro ricevuto dalle organizzazioni internazionali (“cash first aid”). “È una soluzione temporanea. L’appartamento non è abbastanza grande per tutti”, spiega. Aspetta la ricostruzione, ma senza sperarci troppo: “Ci vorranno degli anni. E alla prossima guerra, si ricomincerà da capo”. Jawad Mahdi è il proprietario del grattacielo Al-Jala di Gaza, distrutto dall’aviazione israeliana il 15 maggio: “Tutti i nostri sogni sono andati in fumo”, dice. Dei tredici piani non rimane più nulla. Ci vivevano quaranta famiglie. Il grattacielo ospitava anche le sedi di corrispondenza dell’agenzia di stampa statunitense Associated Press e della televisione del Qatar Al-Jazeera, diversi studi legali e una clinica. L’uomo di 68 anni, in camicia nera e scarpe di pelle lucida, un’eleganza che contrasta con la situazione, osserva, stanco, i tre bulldozer egiziani al lavoro. Facendosi strada tra gli operai, schivando la polvere, ci porta a vedere quel che resta del suo negozio di abbigliamento da uomo. “Data la presenza dei media internazionali, non abbiamo mai immaginato che il palazzo potesse diventare un bersaglio”. Secondo Israele il grattacielo era usato da Hamas, ma Jawad non ci crede. “Noi non abbiamo niente a che vedere con Hamas né con la politica in generale – dice –. È stato un crimine di guerra e lo dimostrerò. I miei avvocati sporgeranno denuncia presso la Corte penale Internazionale”. Gli israeliani, spiega Jawad, hanno lasciato alle persone solo quindici minuti per lasciare il palazzo, dopo aver comunicato che stavano per bombardare. Di solito l’allerta è data almeno un’ora prima. I residenti sono potuti fuggire, ma non sono riusciti a portare via nulla. Gli undici giorni di guerra non hanno fatto solo danni visibili. Nel porto di Gaza, si sono radunati decine e decine di bambini. Con i colori, scrivono su dei pezzi di carta i messaggi che vogliono far arrivare alla comunità internazionale e poi li gettano in mare dentro delle bottiglie o li fanno volare via attaccati a dei palloncini. Nadine Abdel Latif prende la parola davanti alle telecamere di una dozzina di giornalisti.
A soli 10 anni, è già alla sua quarta guerra: “È stato spaventoso – racconta –. Piangevo dentro il mio letto. Con mia mamma e mio fratello ci abbracciavamo forte. Sapevo che non ero al sicuro da nessuna parte, né nella mia stanza né in casa. Ma dove potevo andare? Mia mamma dice sempre che è meglio morire tutti insieme”. Dalla scorso maggio, Nadine sussulta al minimo rumore improvviso, pensando che si tratti di un’esplosione. Continua a sentire dentro la sua testa il rumore delle bombe. “In questo momento è tutto complicato. Non posso fare a meno di pensare alle persone care che abbiamo perso, ai compagni di classe morti nei bombardamenti. Siamo solo bambini, meritiamo di vivere. Lontano da qui i bambini possono guardare i film di orrore in tv. Noi li abbiamo vissuti per davvero – continua -. E ora, dal cessate il fuoco, io e i miei amici abbiamo paura di giocare all’aperto. Ma ci fa paura anche restare chiusi dentro casa”. A Gaza, dopo l’ultima guerra, circa nove bambini su dieci soffrono di disturbi post-traumatici. Sul porto, alcuni di loro disegnano gli aerei dell’aviazione israeliana, altri disegnano delle tombe. C’è chi non parla più, chi si chiude timidamente in se stesso, chi è diventato aggressivo o violento, altri sono iperattivi. “Ma il problema principale di tutti questi bambini è che non hanno una vita normale – spiega Nabila Kilani, fondatrice del centro Amani di Gaza, la cui sede è stata a sua volta colpita dalle bombe -. Sono solo bambini, ma hanno già la memoria carica di brutti ricordi e un livello di stress molto alto. E anche se ora non siamo sotto le bombe, i droni continuano a ronzare sopra le nostre teste, viviamo sotto minaccia costante. Questa è guerra psicologica”. Il centro Amani aiuta i bambini ad affrontare le difficoltà, trattando i sintomi legati alla guerra, dando loro consigli su come proteggersi e come gestire le emozioni anche in prospettiva dei prossimi attacchi. “Perché ce ne saranno altri”, osserva Nabila. A Beit Lahia, nel nord della Striscia, il paesaggio cambia completamente: distese di mais e campi di fragole, qualche serra, fattorie. In questa regione, poco lontano dal muro di separazione con Israele, si concentra la maggior parte delle terre fertili della Striscia di Gaza. A due mesi dalla guerra, gli agricoltori stanno ancora misurando l’entità dei danni. Alcuni hanno perso tutto. Come Hamada Hamdi Khdeir, 35 anni, che aveva ripreso l’azienda di famiglia. Raccoglie una patata nella terra: “Guarda, è bruciata. Lo sono tutte le nostre patate. È colpa della mancanza d’acqua, del caldo e dell’esplosione”. Ci mostra un enorme cratere scavato nella terra da una bomba. Delle serre sono state danneggiate.
I pannelli solari, che gli permettono di avere l’elettricità quando non ce n’è, cioè quasi sempre, sono coperti di impatti di missili e sono ormai inutilizzabili. “Anche quando i conflitti si svolgono alla frontiera, noi agricoltori siamo i primi a subirne le conseguenze – osserva –. È stato così a ogni guerra, nel 2000, 2008, 2009, 2012, 2014 e 2021. Quando si sente dire che i bombardamenti hanno colpito dei territori deserti, in realtà si tratta dei nostri terreni agricoli. Ma non interessa a nessuno”. Il raccolto della stagione è perso. Non sa come pagherà i debiti e ha una famiglia da mantenere. Anche gli agricoltori le cui fattorie non sono state colpite dalle bombe sono in difficoltà. Alcuni si sono rinchiusi in casa per undici giorni e hanno perso il raccolto perché non hanno irrigato i campi. Chi non ha perso il raccolto subisce le restrizioni alle esportazioni imposte dal 2007. “Da quattordici anni le cose vanno sempre peggio – spiega Ahmed Hachem Khdeir, sulla cinquantina, che produce cetrioli e fragole a qualche centinaio di metri dalla fattoria di Hamada – . Da due, tre anni esportiamo solo fragole e pomodori, solo in piccolissime quantità e solo verso la Cisgiordania occupata. L’accesso alle terre delle zone cuscinetto è vietato, il mercato locale è in contrazione, i prezzi calano. Si aggiunge poi che il materiale agricolo viene distrutto sotto le bombe. Gran parte del settore agricolo della regione è devastato”. Secondo Ahmed, “se non si fa nulla, entro cinque o sei anni, bisognerà dire addio all’agricoltura di Gaza”.
(Traduzione di Luana De Micco)