Houston, abbiamo un problema. Cioè, come si sa, più d’uno, ma quello che è emerso nei giorni dei trionfi azzurri – calcio, atletica, coppe, medaglie – è così evidente che già è scattato il paradosso: abbiamo un problema con l’epica, la retorica, le parole per dirlo. Insomma, esageriamo un po’, ecco, niente di male, se non fosse che il linguaggio è abbastanza rivelatore, e quindi eccoci improvvisamente – a ondate – a cercare l’orgoglio nazionale dove si può e si riesce. Un oro nei cento metri piani è una vittoria pazzesca, così come un oro nel salto in alto: è comprensibile che siano medaglie che ci mettiamo un po’ tutti, e ci sentiamo migliori. Una gioia condivisa.
Lo dico subito: sfrondiamo la faccenda dalle cretinate politiche: che le medaglie e le coppe alzate dagli azzurri siano merito di questo o di quello, del nuovo rinascimento italiano (sic), di Draghi, del Paese che rialza la testa e altre amenità, fa parte di quella propaganda un po’ ridicola che percorre come un brivido dannunziano corsivi e commenti. La riscossa, la rinascita, grazie Draghi (ma quando si allena? Di notte?). Insomma, non è solo la risibile retorica dell’omaggio al capo (vinciamo perché c’è Lui) che si commenta da sé, ma proprio una difficoltà oggettiva di trovare parole misurate e credibili. Ecco invece il profluvio: dal glorioso manipolo, alla giornata storica, dai nostri gladiatori all’osanna che coinvolge tutto: vinciamo e quindi siamo un Paese vincente – finalmente! Era ora! – equazione banalotta e facile, che sembra piacere a tutti.
Può darsi, naturalmente, che i successi sportivi facciano bene a chi comanda: si ricorda il mondiale argentino del 1978, quando una delle dittature più feroci del dopoguerra si costruì la sua vetrina, e questo senza bisogno di tornare alle Olimpiadi del ’36. Insomma, non voglio esagerare nemmeno io, ma che lo sport sia motore di propaganda non è certo cosa nuova, il tentativo di saltare sul podio insieme ai campioni per prendersi dei meriti senza aver sudato nemmeno cinque minuti è un classico di ogni tempo.
Resta il fatto: ciò che rimproveriamo alla vita politica e al dibattito pubblico, cioè di essere dominati dalle tifoserie, di essere orgogliosamente anti-oggettivi, si riflette perfettamente nelle cronache sportive. Il fallo di un nostro giocatore è un fallo, quello dell’avversario è un attentato terroristico che “voleva fare male”. Gli altri vincono, noi trionfiamo. Gli altri sono bravi atleti, i nostri sono mostri, giganti, immensi gladiatori, e via così, in un’ordalia verbale in cui si sprecano parabole belliche, retoriche nazionaliste, narrazioni trionfali dove l’epica è costruita lì per lì, a volte addirittura attribuita a poteri superiori e disegni celesti. Non siamo lontani, in certe cronache che debordano dalle pagine dello sport, dal vecchio “Dio è con noi”. Corre più forte, salta più in alto, para i rigori, una specie di popolo eletto per interposto atleta.
Così si corre il rischio, sfuggendo al coro unanime, di passare per rosicatori anti-italiani se ci si colloca in un ragionevole mezzo tra la gioia collettiva per la vittoria e la retorica sul riscatto nazionale: o si accetta tutto il pacchetto (vinciamo perché siamo un Paese migliore, più unito, pronto finalmente alla ripartenza) oppure si finisce nel limbo dei disfattisti, equazione irricevibile per chi ancora riesce a vedere le dimensioni delle cose. Tipo: hurrà per le medaglie, evviva, ma scambiarle per riscossa etica, morale, politica, economica, sociale, non sarà un po’ troppo?