Giovanna Salviucci Marini è tra le maggiori esperte di ricerca etnomusicale e folk (insegnata anche in cattedra a Parigi) oltre ad essere la decana delle cantautrici, allieva di Segovia. Una carriera spesa per ascoltare, conoscere e portare su un palco tradizioni orali cantate da contadini in ogni provincia del Belpaese. E un immenso patrimonio culturale accumulato confrontandosi con Pasolini, Calvino, Dario Fo, Woody Guthrie, Bob Dylan. La intervistiamo in un raro momento di relax: “Sto in riva al mare, si sentiranno le onde”.
I suoi genitori erano entrambi musicisti.
Mio padre era un compositore, è morto a trent’anni ma aveva già scritto musica sinfonica. Mia madre era una pianista e direttrice d’orchestra ma come spesso succedeva in quel periodo, una volta sposata ha chiuso definitivamente con la musica.
Non è un azzardo dire che ha portato avanti il testimone dei suoi genitori.
Pur amando la musica classica ho avuto una folgorazione per i canti di tradizione orale: le “carciofare” pugliesi, le mondine di Vercelli. Un mondo tutto nuovo, dove non c’era competizione.
La prima volta che ha presentato Bella Ciao a Spoleto si è scatenato il finimondo…
Sì (ride, ndr). Fui incoraggiata dall’amicizia di Gianni Bosio e Roberto Leydi e convinta da Nanni Ricordi a cantare al Festival di Spoleto, davanti all’intellighenzia dell’epoca. Facevo parte del Nuovo canzoniere italiano, un gruppo molto vario, uniti da una passione politica: erano i tempi dei governi non esaltanti della Democrazia cristiana e della contestazione. Ai quei tempi non sapevo nemmeno la differenza tra rivoluzione e reazione, stavo messa proprio male! Con il Gruppo Padano di Piadena, Mario Lodi, il grande Rodari e altri nomi bellissimi arrivammo a Spoleto molto accesi, orgogliosi dello spettacolo chiamato “Bella ciao”. Mi inventai due canzoni spacciandole per canti popolari per non sentirmi troppo al di sotto delle aspettative. Il pubblico era molto nervoso e appena partimmo con “Bella ciao” ci furono proteste. Si alzò Michele Straniero e cantò una strofa di Gorizia: “Traditori signori ufficiali, voi la guerra l’avete voluta”, e successe un caos enorme. Una donna si alzò e urlò “evviva gli Ufficiali, evviva l’Italia” e con lei applaudì il pubblico patriottico. Tutti i parenti nostri si affacciarono dal loggione e intonarono “Bandiera rossa” e subito da sotto il loggione risposero con “Faccetta nera”. A quel punto Giorgio Bocca intonò “Fratelli d’Italia” per mettere un po’ di pace. Ci siamo trovati in questa situazione assurda nella quale la gente si aggrappava al sipario per menarci: decisamente una serata eccitante! (ride, ndr) Per il Codice Rocco, in vigore ai quei tempi, venivi arrestato per cose così. Andammo via e camminammo lungo la montagna di Spoleto: una notte bellissima che non dimenticherò mai, fatta di canti e balli. Ci riposammo vicino a una piccola pensione e spuntò da una finestra Giancarlo Pajetta – uno dei comunisti più convinti -, venuto ad ascoltare lo spettacolo e ci ospitò. Poi ci arrivarono una valanga di denunce.
È in arrivo un documentario – prodotto da Millstream – sulla storia di Bella ciao.
Uscirà a settembre. “Bella ciao” è chiaramente una canzone d’amore, un canto popolare che narra la storia di una donna che si uccide per amore. Torna il fidanzato e canta in versi “io farò una fossa e ci staremo dentro in tre”. Ma con padre, madre e “la mia bella in braccio a me” che aspettava un bambino sarebbero in cinque! Ma sono canti popolari e non sempre i conti tornano.
Quando sente le versioni dance o quella di Tom Waits cosa prova? In qualche modo la canzone va avanti.
Va benissimo, la musica cammina, ha la qualità di volare. La musica orale è un miracolo: copre distanze enormi. Se un ragazzino di vent’anni prende Generale di De Gregori e se ne innamora e la canta in un altro modo e ci mette i riferimenti alla pandemia va benissimo, è così che deve succedere. L’invenzione deve essere libera.
Cantautrici che stima?
Ce ne sono tante. In Italia la Nannini la trovo molto seria e scrive belle canzoni, come Teresa De Sio. Internazionali direi Aretha Franklin, Miriam Makeba, Joni Mitchell.
Lei si considerava “una cantastorie delle classi subalterne” e si è sempre occupata di diritti civili e parità di genere. Quanto è cambiato lo scenario?
Non è cambiato affatto. Continua ad esserci una distanza enorme tra la folla – quella che viene definita dagli scrittori ottocenteschi il popolo bue – e l’élite, quelli che hanno studiato. Io penso che la storia la faccia la folla.
L’anno scorso in occasione del centenario della nascita del Partito Comunista ha rielaborato Il partito, cosa ha rappresentato per lei?
Si chiama “Il partito”, è una partitura scritta dal mio amico Fausto Amodei nel 1976 ed è ispirata al diario di Camilla Ravera. Come devono nascere i partiti? Con degli ideali! Non ce ne sono più. C’è una nebulosa che circonda la politica oggi che è impressionante. Almeno Draghi sui soldi ci capisce. Possibile che nessuno abbia un ideale di giustizia?