L’istruzione somiglia alla musica. Per farla, bisogna essere per forza in due: il musicista (docente) che la crea e l’ascoltatore (studente) che, facendola propria, la ri-crea. Come la musica, l’istruzione vive dell’incontro tra diversità, può essere sublime e aprirci la testa, oppure oscena e chiudercela per sempre. Dell’abisso che separa questi due opposti parla Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, in libreria per Meltemi, nella brillante traduzione “gender-free” di feminoska (es.: studente, se considerato participio, è sia maschile che femminile). Una raccolta di riflessioni incalzanti, stimolanti e straordinariamente attuali (l’edizione americana è datata 1994), nella quale mi pare che il verbo trasgredire recuperi l’etimologia latina, per indicare l’urgenza di “superare” teorie e pratiche di un sistema pedagogico “depositario” – chi sa deposita la conoscenza in chi non sa – che punta a mantenere privilegi di classe e distanziamenti sociali né sanitari né democratici. Da oltre vent’anni, bell hooks, l’autrice (le iniziali minuscole sono una sua scelta: il messaggio è più importante del messaggero) lotta perché si affermi una “pedagogia impegnata” che consenta di trasformare l’aula in una “comunità di apprendimento”, nella quale venga riconosciuto “il valore di ogni singola voce” e valorizzata ogni differenza. “I docenti non devono essere per forza dittatori” impegnati a “rafforzare i sistemi di dominio esistenti”, e l’insegnamento deve trasformarsi da “condivisione di informazioni” in “condivisione della crescita intellettuale e spirituale degli studenti”.
Donna, nera, figlia della classe operaia, cresciuta nel sud segregazionista Usa, femminista, intellettuale e progressista: sono alcune tra le ragioni di emarginazione, sociale e culturale, che hooks – oggi scrittrice e docente universitaria – ha dovuto, e ancora deve, affrontare. Il suo obiettivo è farci riflettere sulla matrice patriarcale, bianca, borghese e capitalista di un Potere che fa di tutto per condizionare le esistenze, mantenendo gli squilibri a discapito di quanti appartengono a generi, etnie, ceti sociali o categorie minoritarie ed emarginate. Problema tutto americano? Forse. Chiediamolo ai 13,6 milioni di italiani (il 22,9%: più di 1 italiano su 5!) che vivono in povertà, o ai cosiddetti “Black Italians”, afro-discendenti, latino-discendenti, “non bianchi” o “diversamente bianchi”, che – come ricorda il “Gruppo di ricerca Ippolita” nella postfazione – “popolano in modo significativo le aule scolastiche e a cui nella maggior parte dei casi è negato il diritto alla cittadinanza perché figli di genitori non italiani”.
Tra le armi predilette del Potere, linguaggio e istruzione. Abbiamo mai riflettuto, ad esempio, sul legame tra lingua e dominio? Sul fatto, cioè, che – senza che ce ne accorgiamo – la lingua che parliamo plasma le nostre coscienze, finendo con l’imprimere alle nostre esistenze precisi orientamenti valoriali, morali e sociali? No? Facciamolo. Sarà il primo passo sulla strada di quella presa di coscienza senza la quale nessuna vera liberazione sarà mai possibile. “Questa è la lingua dell’oppressore, ma ne ho bisogno per parlarti”. Parte da questo doloroso verso di Adrienne Rich la riflessione di bell: “L’inglese standard […] è il linguaggio della conquista e del dominio; negli Stati Uniti, è la maschera che nasconde la perdita di un gran numero di altre lingue, di tutti i suoni delle diverse comunità native che non sentiremo mai”. Ecco perché è “essenziale che il potere rivoluzionario del linguaggio vernacolare nero non venga perso nella cultura contemporanea”, e che si realizzi quel “clima di libera espressione che è l’essenza di un’educazione alle scienze umanistiche veramente libertaria”. Educare alla libertà, allora, significa “cambiare il modo in cui si pensa al processo pedagogico”, per aprire la porta a “modi di pensare e conoscere differenti e cruciali al fine di creare una visione contro-egemonica del mondo”. Processo tutt’altro che facile, dal momento che “l’abitudine alla repressione è la norma”.
Una “pedagogia critica” che cerca di “trasformare la coscienza, di fornire agli studenti modi di comprendere che consentano loro di conoscersi meglio e di vivere più pienamente nel mondo”. “È questa passione per le idee, per il pensiero critico e per lo scambio dialogico – spiega hooks – che voglio celebrare in classe, che desidero condividere con gli studenti”. L’autrice sa bene che “l’accademia non è il paradiso”. Ma sa anche che “l’apprendimento è il luogo in cui è possibile creare il paradiso”. L’aula, infatti, è un “luogo di possibilità” nel quale “abbiamo l’opportunità di lavorare per la libertà, di chiedere a noi stessi e ai nostri compagni un’apertura di mente e cuore che ci consenta di affrontare la realtà anche mentre immaginiamo collettivamente dei modi di oltrepassare i confini, di trasgredire. Questa è l’educazione come pratica della libertà”. Pratica, non teoria.