Tensioni crescenti tra Cina e Stati Uniti, ripresa della corsa agli armamenti, ritorno delle rivalità imperialiste: queste realtà geostrategiche sono difficilmente compatibili con degli obiettivi ecologici ambiziosi. Eppure raramente sono presenti nei discorsi di chi promuove il Green New Deal. Ovviamente una forma di logica esiste, nella misura in cui diversi decenni di negoziati internazionali hanno messo in evidenza l’assenza di un’istanza globale in grado di imporre azioni vincolanti in termini di riduzione dell’impronta ecologica. Nel loro libro “Gouverner le climat?” (SciencesPo, 2015), i ricercatori Stefan Aykut e Amy Dahan hanno potuto constatare “l’impotenza flagrante della governance climatica ad agire sul reale”. Di fronte a istituzioni globali deboli, prive di legittimità e leadership, Ann Pettifor, una delle più convinte sostenitrici del Green New Deal, invita quindi a privilegiare la via della “cooperazione internazionale fondata sull’autorità degli Stati-nazione”.
Il problema è che questa cooperazione tra unità-Stati è raramente pensata come tale. Molto spesso, anche nelle versioni più radicali, la dimensione globale è affrontata principalmente in termini di responsabilità differenziate tra Nord e Sud, come in una proiezione, su scala sovranazionale, delle disuguaglianze che fratturano la società di fronte al cambiamento climatico. La scena internazionale non è vista attraverso la sua specificità, di essere cioè strutturata secondo una gerarchia di potenze. “La sinistra è a disagio con questo principio – spiega Philip Golub, professore all’Università americana di Parigi -. L’internazionale resta immerso in una sorta di stato di natura, senza reali strumenti per subordinare le potenze a una volontà comune. L’ideale, ancora lontano, sarebbe di costituzionalizzare il mondo, come è stato fatto a livello domestico”. Discorsi e iniziative politiche recenti, negli Stati Uniti come in Cina, mostrano una volontà di emulazione reciproca al fine di diventare leader nella transizione ecologica. “Nell’estate 2020, il programma ufficiale del partito Democratico affermava che la minaccia esistenziale era rappresentata dal clima – osserva Maya Kandel, ricercatrice associata all’Università Paris-3 -. Non è un caso se John Kerry, noto per il suo impegno su questo genere di sfide, sia stato nominato al Consiglio di sicurezza nazionale”. Da allora, il presidente Biden è impegnato a cercare finanziamenti per far evolvere il mix energetico degli Stati Uniti. Da parte sua, in Cina, Xi Jinping ha ribadito che il suo paese sarebbe stato in prima linea nello sforzo globale per la “civiltà ecologica” e ha più volte martellato sull’impegno del paese a raggiungere il suo picco di emissioni nel 2030 (il che presuppone anche una possibile crescita fino a quella data) e la neutralità carbonica nel 2060, “un test – ha detto – per valutare la capacità del nostro partito a governare il Paese”. “Ma la fase dei grandi appelli morali è finita – commenta il filosofo Pierre Charbonnier -. Ormai siamo ad un punto di intersezione tra politiche climatiche, di sovranità, di occupazione e industriali. È una buona notizia, perché il dibattito pubblico si concentri sui problemi centrali e non marginali”. Per riflettere sulla funzione che un Green New Deal potrebbe svolgere in questo contesto, è utile osservare come si è articolato il New Deal degli Stati Uniti degli anni 30, che lo ha ispirato. In un primo tempo, la politica di Roosevelt era orientata a finalità esclusivamente interne, al fine di (ri)creare sicurezza economica e sociale. Nel corso degli anni 30, la ripresa interna resa possibile dal New Deal è stata accompagnata da un’ascesa delle minacce esterne, spinte dalla volontà di espansionismo del fascismo in Europa.
Le sfide legate alla sicurezza aveva assunto un nuovo significato geostrategico, dopo essere state ridefinite dal punto di vista dell’inclusione socioeconomica. Da allora, l’“eccezione statunitense”, come idea di una “missione civilizzatrice” della Repubblica nordamericana, sono state interpretate alla luce di una risposta interventista alla crisi, che aveva potuto preservare i pilastri della democrazia. Il New Deal rooseveltiano poteva infatti vantarsi non solo di aver salvato il capitalismo da se stesso, ma anche il regime liberal-rappresentativo che questo modo di produzione può tollerare, fintanto che gli interessi fondamentali dei detentori dei capitali non vengono minacciati. Poiché la guerra era stata combattuta in nome di questa democrazia, essa poteva venire esportata al di là delle frontiere, dal momento che le circostanze lo richiedevano. Per gran parte dei Democratici centristi, tra cui Joe Biden, il Green New Deal si fonda chiaramente su queste basi storiche, attraverso la difesa della democrazia in termini di valori e la rivalità con la Cina sul piano geostrategico. Dalla presidenza Trump, molti democratici hanno imparato che il rispetto prolungato dell’ordine neoliberale può sfociare in mandati che minano lo Stato di diritto e la possibilità stessa dell’alternanza pacifica. Invece l’idea della competizione tecnologica e ideologica con la Cina continua a essere presa sul serio, pur essendo strumentalizzata. Maya Kandel racconta come alcuni responsabili politici pro-clima ripetano più volte nei loro testi la parola “Cina” per recuperare voti repubblicani al Congresso: “È successo di recente, per esempio, per un emendamento relativo a un’imposta alle frontiere da imporre a paesi non abbastanza impegnati sul clima. In generale, citare la Cina ha una valenza tattica per Biden. Ma ritengo anche che il presidente sia sinceramente preoccupato per il Paese, la cui immagine ha sofferto sulla scena internazionale e per il rischio di leadership cinese in materia tecnologica”. La centralità della Cina nel pensiero strategico statunitense non è retaggio trumpiano, ma risale almeno ad Obama. “La Cina è percepita come una potenza emersa, una sfida seria paragonabile all’Unione Sovietica, per il fatto stesso che fa parte del sistema capitalista mondiale – osserva Philip Golub -. La Cina inoltre ha portato a termine con successo la sua transizione capitalista autoritaria e dimostra la sua volontà di investire in modo massiccio nella ricerca.
Per tutta risposta, l’amministrazione Biden ha avviato una serie di iniziative, tra cui la creazione di nuove agenzie di Stato per favore l’innovazione nel campo della difesa, della salute, dell’energia e dell’ambiente. Siamo in una logica rooseveltiana: si tende a risolvere problemi domestici, proteggendo al contempo il progresso tecnologico del paese nella competizione con la Cina”. L’uso dell’espressione “sicurezza nazionale” nella risoluzione di Green New Deal proposta da Alexandria Ocasio-Cortez e Ed Markey non era dunque neutra, benché l’argomento fosse il cambiamento climatico. Allo stesso tempo, diverse organizzazioni e think tanks, tra cui il giovane Quincy Institute, difendono una de-escalation con la Cina che passerebbe per la demilitarizzazione e la cooperazione in materia di clima. Ma non c’è forse il rischio in questo modo anche di collaborare con un potere che perseguita le sue minoranze, al punto che lo stesso Biden ha parlato di “genocidio” rispetto alla repressione degli uiguri? “Si possono immaginare configurazioni ibride, cooperando solo in certi settori e mantenendo le rivalità in altri – spiega Golub -. Ma è evidente che la sola dimensione climatica non permetterà di risolvere gli altri problemi esistenti tra Cina e Stati Uniti”. “Non c’è soluzione alla crisi climatica senza un gigantesco e costoso impegno da parte di Pechino, che detiene letteralmente nelle sue mani il futuro dell’umanità”, secondo lo storico Adam Tooze. Rispetto all’Europa, l’economia della Cina è lungi dall’essere “verde”: “Il carbone costituisce ancora il 60% del mix energetico del paese e si continuano a costruire centrali – avverte Jean-Paul Maréchal, docente di economia all’Università di Parigi-Sud -. Come possiamo solo immaginare che raggiungerà la neutralità carbonica nel 2060?”.
(Traduzione di Luana De Micco)