Fra gli attacchi concentrici che hanno preso di mira Tomaso Montanari, dopo le sue critiche all’uso strumentale della Giornata del ricordo delle vittime delle foibe, si distingue la lettera inviata al Giornale da Giorgia Meloni. Non mi riferisco solo al tono minaccioso con cui la presidente di Fratelli d’Italia chiede di fermare la “pericolosa deriva” rappresentata dalla nomina di un antifascista dichiarato a rettore universitario.
Certo, lei è più navigata di un Durigon che pensa di cavarsela dichiarando “non sono e non sono mai stato fascista” dopo aver proposto i giardini Mussolini. Meloni ha appreso l’arte della dissimulazione, ma poi lascia trapelare quale revisione della storia patria ci toccherebbe quando arrivasse alla guida del governo.
Va letta con attenzione. Sia quando aggira lo scoglio del giudizio sul fascismo e sulla Resistenza (“non mi interessa parlare del millennio passato”) con la solita scusa dell’“io sono nata dopo”. Sia quando invece non si trattiene dallo scagliarsi sul “branco di partigiani” responsabili della morte di Norma Cossetto, colpevole solo “di non essere stata ostile al fascismo (come gran parte degli italiani di allora)”. Per insinuare poi che i “valori” di cui si fa portatore Montanari, definiti “sproloqui di un intellettuale vip della sinistra”, sarebbero gli stessi che hanno ispirato gli assassini di Sergio Ramelli e dei fratelli Mattei.
Questo metodo del dico e non dico, affinato con una maestria ignota ai fascioleghisti, meriterà una decifrazione più accurata. Ci cascano non pochi opinionisti corrivi, ma non promette niente di buono per la cultura italiana.
Pochi giorni fa sullo stesso giornale un tizio mi ritraeva avido “sefardita” con citazioni a vanvera di Qabbalah, proverbi yiddish, e altre simili amenità. Salvo poi replicare che non si riferiva al fatto che sono ebreo. La Meloni è più furba, ma anche più pericolosa.