Come era prevedibile, nella risoluzione Onu adottata lunedì dal Consiglio di sicurezza non figura la proposta di Emmanuel Macron di instaurare una “safe zone” a Kabul. Il documento si limita a ribadire gli “impegni” presi dai talebani, di garantire cioè la partenza “sicura e ordinata” di tutti gli afghani che desiderano lasciare il paese. Riafferma poi “l’importanza del rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle donne, dei bambini e delle minoranze” e chiede che il territorio afghano non venga utilizzato per “minacciare o attaccare” altri paesi o per dare rifugio ai “terroristi”. Nel momento, o quasi, in cui la risoluzione veniva votata, il generale Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aviotrasportata e ultimo soldato statunitense a lasciare il suolo afghano, imbarcava a bordo di un aereo cargo C-17 della Us Air Force all’aeroporto di Kabul, mettendo fine, senza gloria né pace, a 20 anni di presenza militare statunitense.
Prima del decollo degli ultimi C-17, i militari americani avevano distrutto aerei, veicoli blindati, armi e munizioni. Qualche giorno prima, i diplomatici avevano a loro volta distrutto pile di documenti dell’ambasciata Usa e trasferito tutte le attività a Doha. Il Qatar sembra intenzionato a conservare il ruolo di principale tramite tra i nuovi padroni dell’Afghanistan e il resto del mondo. È proprio a Doha che una delegazione diplomatica francese guidata da François Richier, ambasciatore di Francia a Kabul dal 2016 al 2018, ha incontrato un paio di settimane fa una delegazione afghana guidata da Shir Abbas Stanikzai, vicedirettore dell’ufficio politico dei talebani. In una sua recente intervista a TF1, in diretta da Baghdad, Macron ha preso atto dell’impegno diplomatico dell’Emirato, sottolineando “il ruolo particolare che il Qatar sta svolgendo da diversi mesi” nel “dialogo iniziato con i talebani”. Il che è vero solo a metà. Non sono mesi, infatti, ma anni, e ben dieci, che l’Emirato svolge un ruolo di primo piano nella diplomazia talebana. Il ministero degli Esteri avrebbe forse dimenticato di informarne l’Eliseo? È poco probabile. La direzione per l’Africa del nord-Medio Oriente (Anmo) del ministero francese segue da vicino i movimenti del Qatar, legato alla Francia da solide relazioni politiche, economiche, culturali e militari.
Il Qatar è alleato di Parigi nella lotta al terrorismo e ha acquistato alla Francia 36 aerei da combattimento Rafale, fabbricati dal gruppo Dassault. Abituato a leggere in modo troppo rapido, e a volte superficiale, i documenti che gli vengono trasmessi, Macron, accusato da alcuni diplomatici a New York di aver svenduto il progetto di “safe zone”, avrebbe sottovalutato la natura e la longevità delle relazioni tra il Qatar e i talebani? Una leggerezza deplorevole, dal momento che queste relazioni hanno svolto un ruolo determinante nella crisi afghana e nella sua evoluzione. “Accettando nel 2013 l’apertura a Doha di un ufficio di rappresentanza politica dei talebani, con il via libera – e forse anche su suggerimento – degli Stati Uniti, il Qatar ha offerto al movimento afghano un ‘indirizzo diplomatico’ ufficiale che ha facilitato i contatti con gli emissari americani e l’apertura dei negoziati con il regime di Kabul”, spiega Lakhdar Brahimi, ex ministro algerino degli Esteri e ex rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan dal 2001 al 2005. Gli americani “che intendevano inviare in Qatar i responsabili talebani rilasciati da Guantanamo per sbarazzarsi di loro senza perderli completamente di vista – continua il diplomatico –, hanno persino accettato di far designare la rappresentanza di Doha come “ufficio dell’Emirato islamico d’Afghanistan”.
Il presidente afghano Hamid Karzai, più favorevole ad aprire l’ufficio in Arabia Saudita o in Turchia, non ha potuto cedere a Washington. È così che l’ufficio di Doha è diventato uno strumento capitale negli scambi diplomatici tra Washington e i talebani, soprattutto quando l’amministrazione Trump ha cominciato a negoziare il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e ha voluto incontrare interlocutori credibili nell’opposizione armata”. In cambio di questo aiuto diplomatico, logistico e finanziario fornito ai talebani, Doha sperava di imporsi strategicamente come mediatore nelle crisi regionali. I dirigenti dell’Emirato, accusati di essere segretamente alleati dell’Iran, di sostenere i Fratelli musulmani nei paesi dove invece le popolazioni in rivolta aspirano a una transizione democratica, e accusati a volte di finanziare il terrorismo con i loro petrodollari, speravano in questo modo di convincere gli Stati Uniti e l’Europa della loro abilità ad agire sulla scena internazionale. Intendevano anche presentarsi come promotori della pace, del diritto internazionale e del multilateralismo. “Con tutti i soldi che ha il Qatar pensava di potersi sedere, almeno una volta ogni tanto, al tavolo delle grandi potenze – osserva un diplomatico arabo – e bisogna riconoscere che, nella sua strategia, finora è stato bravo”. Quando nel 2017 è scoppiata la “crisi del Golfo”, che ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita, Emirati, i loro alleati e il Qatar, diventato d’un tratto uno Stato paria, Doha ha fatto subito in modo di mettersi a disposizione dell’amministrazione Trump, alleata di Riad e Abu Dhabi, ma in cerca di una soluzione per uscire dalla trappola afghana. Forse si aspettava in cambio un intervento di Trump, amico di Mohammed Ben Salman, principe ereditario d’Arabia Saudita, e di Mohammed Ben Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi, per allentare le sanzioni che pesano sulla sua economia. Abili e potenti negoziatori, anche grazie agli enormi introiti generati dalla esportazione di gas, i diplomatici del Qatar sono riusciti persino a convincere i talebani della neutralità dell’Emirato, anche se a Al-Udeid si trova la più grande base militare statunitense della regione. È quindi a Doha, mentre i talebani avanzavano di settimana in settimana, che, nel febbraio 2020, è stato firmato un accordo che prevedeva il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, delle garanzie di sicurezza da parte dei talebani e l’apertura di un dialogo inter-afghano.
Un successo diplomatico per l’emiro del Qatar, Tamim Ben Hamad Al Thani, e per il suo ministro degli Esteri, Mohamed Al Thani. Ma il trasferimento del potere in Afghanistan non si è fatto politicamente come Doha sperava. I talebani, appoggiati da Cina e Russia, hanno continuato a avanzare militarmente. Nel gennaio 2021, quando Joe Biden è entrato alla Casa Bianca, era evidente che l’esercito afghano, formato dagli Usa, che doveva “resistere ai talebani per più di un anno”, non avrebbe resistito neanche sei mesi. Due mesi dopo, Biden ha dovuto ammettere che la data prevista per il ritiro delle forze Usa dall’accordo di Doha – il primo maggio – non poteva essere rispettata ed è stato obbligato a fissarne un’altra: la fine dell’estate, prima del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre. È stato il primo spettacolare fallimento per Biden. Per il Qat ar il bilancio è ancora incerto. “Se i talebani si rivelano brutali e crudeli come quando erano al potere, dal 1996 al 2001, e tornano ad accogliere i gruppi jihadisti, Doha pagherà un prezzo politico molto alto per averli aiutati – analizza una fonte vicina al dossier -. Non dimenticheremo, allora, che è su un aereo dell’aeronautica del Qatar che il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due dei talebani, è rientrato a Kabul. Ma se il Qatar vince la sua scommessa e aiuta l’Afghanistan dei talebani a diventare uno Stato aperto al commercio internazionale, pure se guidato dalla sharia, come lo è stato in passato l’Arabia Saudita, chi potrà criticarlo? Non certo gli attuali alleati e partner diplomatici di Riad. Potrà inoltre vantarsi di aver tirato fuori l’Afghanistan da vent’anni di guerra rispettando il diritto internazionale, permettendo ai nemici di sedersi tutti intorno allo stesso tavolo. È una sfida rischiosa. Ma c’è forse qualcuno che ha fatto proposte alternative?”.