La nuova compagnia aerea del contribuente italiano, detta “Ita”, non ha alcuna prospettiva di successo industriale, ma si appresta a decollare egualmente il prossimo 15 ottobre per una scelta ostinata dei nostri decisori pubblici. Essi non hanno avuto infatti né il coraggio di porre definitivamente termine a 74 anni di compagnia di bandiera, di cui gli ultimi 23 di perdite ininterrotte, né quello di progettarne un rilancio adeguato, ponendosi in conflitto con la Direzione Concorrenza dell’Ue sino a ottenere il via libera sulle caratteristiche indispensabili, in primo luogo dimensionali, per rendere economicamente sostenibile il vettore nel nostro complesso mercato. Partirà così una compagnia mignon, dalle dimensioni di vettore regionale che mal si sposano con ambizioni di vettore globale, con una flotta di soli 52 aerei di cui il mercato è destinato a non accorgersi se si considera che in epoca pre-Covid erano necessari in media d’anno circa mille aerei per coprire tutta la domanda di trasporto del nostro paese. La flotta prevista è meno della metà di quella utilizzata da Alitalia in amministrazione straordinaria prima della pandemia e in essa gli aerei di lungo raggio, il segmento chiave di ogni vettore network, sono solo 7 contro i 26 utilizzati negli scorsi anni dai commissari straordinari, dunque meno di un terzo.
Se da un punto di vista dimensionale i numeri sono sconfortanti, le altre caratteristiche del vettore non sono da meno. La nuova compagnia nasce infatti dallo spezzatino, ma sarebbe meglio definire vivisezione, della vecchia Alitalia. Nasce infatti senza poter usare il marchio, che sarà messo all’asta dai commissari, e senza i servizi autoprodotti relativi alle manutenzioni e all’handling, che saranno oggetto di vendite separate. E nasce persino senza personale, che non transiterà dalla vecchia Alitalia assieme al ramo d’azienda aviation, come si è sempre fatto in passaggi di questo tipo, compreso quello del 2008 tra l’Alitalia pubblica e i “capitani coraggiosi”. I dipendenti saranno selezionati da zero tra tutti coloro che faranno domanda su un sito appositamente aperto, ove anche i comandanti più anziani dovranno depositare il loro CV a fianco dei 18enni al primo impiego: in totale i dipendenti saranno solo 2.800, quasi 8 mila in meno di quelli di Alitalia. Per essi i sindacati hanno chiesto la cassa integrazione straordinaria per quattro anni, una soluzione costosa il cui impatto sulla finanza pubblica, tra i maggiori esborsi dello strumento e le minori entrate contributive, è stimabile in circa 2 miliardi di euro.
Siamo pertanto di fronte a un disastro sociale, con tre quarti dei dipendenti della vecchia Alitalia che non troveranno posto nella nuova azienda, e a un disastro economico, dato che i 2 miliardi prima stimati si aggiungono agli oltre 2 di oneri pubblici già sostenuti durante gli oltre quattro anni di amministrazione straordinaria e ai 3 stanziati per la nuova azienda, per un conto totale che si aggira sui 7 miliardi, oltre il doppio dei costi pubblici sostenuti con la decisione del governo Berlusconi nel 2008 di affidare la cloche aziendale ai capitani italiani al posto del vettore franco-olandese.
Ma quali sono in dettaglio le prospettive industriali del nuovo vettore? A quale competizione andrà incontro dopo il suo decollo nei diversi segmenti di mercato in cui opererà? Nella vecchia Alitalia era il lungo raggio intercontinentale a generare i maggiori ricavi, oltre la metà di quelli totali. È anche l’unico segmento nel quale prima del Covid i grandi vettori europei di bandiera riuscivano a guadagnare. ITA volerà tuttavia solo con sette velivoli di lungo raggio contro i 26 pilotati dai commissari di Alitalia prima della pandemia. Su 21 milioni di passeggeri totali del segmento la sua quota era del 13%, con ITA è destinata a ridursi sotto il 4% quando il mercato sarà tornato ai livelli pre-Covid.
Il secondo segmento più importante di Alitalia, per la quota che vi deteneva, era quello dei voli nazionali. Nel 2019 il 37% dei passeggeri domestici volava con Alitalia mentre nel 2022 più della metà di essi non potrà farlo, perché ITA non avrà aerei e voli sufficienti per prenderli a bordo. La previsione è che la quota di ITA scenda sotto il 20%, più probabilmente al 17%, e che i vettori low cost salgano all’80% del mercato domestico con Ryanair attorno al 50%. Già nel 2019 il vettore irlandese ha trasportato il doppio dei passeggeri totali di Alitalia volando a meno della metà, circa il 40%, dei suoi costi. Se anche ITA potesse ridurre i costi unitari del 20% essi resteranno comunque doppi di quelli di Ryanair, con conseguenze nel medio termine che è facile immaginare.
Infine vi è il segmento infra europeo, già in passato dominato dalle low cost: meno di 7 passeggeri ogni 100 vi volavano con Alitalia nel 2019 e la previsione è che scenderanno a 3 con ITA nel 2022. In pratica decollerà un vettore irrilevante su tutti i segmenti di mercato tranne quello domestico, sul quale tuttavia si scontrerà direttamente con dei pesi massimi dal punto di vista del vantaggio di costo e della quota di mercato che già detengono.
Difficilmente ITA potrà ambire al medesimo risultato di Davide contro il gigante Golia, mentre con certezza il suo tentativo comporterà un costo pubblico aggiuntivo di 5 miliardi rispetto ai 2 già spesi a causa della cattiva gestione dell’Alitalia privata negli anni precedenti il 2018. Ma se ITA non serve a trasportare passeggeri in quote rilevanti, non serve ad alimentare il turismo estero nelle nostre città, non serve a conservare occupazione nel settore e non serve a risparmiare soldi pubblici ma solo a spenderne di più, allora a cosa serve veramente? E perché il governo in carica la difende in maniera ancora più intensa di quanto non fece re Leonida col passo delle Termopili?