Ci sono due cose che contengono l’apoteosi della tristezza: la pizza fredda e la birra calda. Sulla pizza fredda non si è ancora pronunciato nessuno (diamogli tempo), ma pare che la birra calda si affacci periodicamente come geniale soluzione al male supremo delle città, dove molti giovani passano le serate in piazza sorseggiando colpevolmente liquidi non a temperatura ambiente, il che sconcerta e crea pericolo. La triste questione della birra calda torna alla ribalta in quel girone dantesco che sono le elezioni comunali a Roma, e precisamente nel programma di Carlo Calenda per il III Municipio, con tanto di slide, in cui si parla (testuale) di “movida a basso costo”, deriva da combattere con tutti i mezzi. Uno dei quali sarebbe, appunto, staccare i frigoriferi ai minimarket che vendono bibite, anche alcoliche come la birra.
Diciamolo subito, anche per non fare di Calenda uno strabiliante innovatore: questa faccenda di incoraggiare la vendita di birra calda ha radici antiche. Se ne trova traccia su Il Tirreno già nell’anno di grazia 2016, quando il comune di Pisa vietò la vendita di bevande fredde, sempre per contrastare la movida (allora, nei titoli, era “selvaggia”, al classismo del “basso costo” non si era ancora arrivati). Venendo ai giorni nostri, una simile ordinanza è stata adottata questa estate dal Comune di Voghera (sì, quello dell’assessore leghista alla sicurezza che ha ammazzato a pistolettate un immigrato): si fa divieto ai commercianti di detenere e conservare bevande alcoliche “di qualunque genere e gradazione a temperatura inferiore di quella ambiente abbassata mediante utilizzo di sistemi e/o apparecchi di refrigerazione e raffrescamento”.
Naturalmente a tutti piace sorseggiare un gustoso Moscow Mule ghiacciato ai tavolini delle belle piazze italiane, nei privé o nei locali esclusivi, ma la birretta al volo, magari (sacrilegio!) seduti sui gradini o sulle panchine è considerato poco commendevole e foriero di disordini. Insomma, un nuovo – ennesimo – capitolo della guerra ai poveri passa questa volta per i frigoriferi, diavolerie moderne che attentano alla quiete pubblica e consentono momenti di ristoro e rinfresco alle classi meno abbienti (gente che non sa soffrire, secondo la vulgata salvinian-renzista, diseducata alla consumazione come dio comanda). La questione della birra calda nelle piazze del III Municipio di Roma è stretta parente delle ordinanze fiorentine che vietano di mangiarsi un panino in strada, cosa che dovrebbe avere il duplice scopo di aumentare il fatturato delle trattorie e di scoraggiare i visitatori poco solventi, insomma di tenere alla larga i poveracci che rovinano il paesaggio.
Trattasi di lotta di classe, ininterrottamente e ferocemente condotta contro le classi meno abbienti che – dai tempi di Dickens e anche da prima – non possono frequentare taverne costose, né accasarsi in alberghi con molte stelle, né ambire all’ingresso nei bar di lusso, dove la birra fredda resterebbe naturalmente disponibile. Forse dovremmo, a questo punto, cercare una metafora o una allegoria per dire del ridicolo, e anche della violenza, di un simile disegno. Ma non è il caso di sforzarsi, è già tutto abbastanza metaforico così, e sapete tutti che, una volta toccato il fondo, si può sempre cominciare a scavare. Forse si scoprirà che le scarpe “a basso costo” rovinano i selciati delle nostre piazze, e bisognerà correre ai ripari, anche con mezzi drastici – severi ma giusti – tipo l’amputazione dei piedi ai cittadini di basso reddito.