Raggiungiamo Gaetano Azzariti, professore di diritto costituzionale alla Sapienza, al termine di una sessione di esami per chiedergli un’opinione sull’ipotetico bis dell’attuale inquilino del Colle. E comincia così: “Mattarella ha esercitato il suo mandato, rispetto a presidenti più esuberanti, con grande rigore istituzionale. In una legislatura travagliata come è stata questa – con tre governi e una pandemia di mezzo – alcuni passaggi sono stati assai complessi, persino discutibili”.
Per esempio il veto esplicito alla nomina a ministro di Paolo Savona?
Chiariamo: il rigore costituzionale non coincide con l’adesione a ogni scelta del Presidente. Ci sono state decisioni dal mio punto di vista non del tutto condivisibili, ma questo non toglie nulla al giudizio generale sull’interpretazione del mandato del Capo dello Stato, che ribadisco è stato di estremo rispetto alla sua funzione.
Il presidente ha più volte escluso la concessione di un “bis”. Ma moltissimi altri no.
Proprio il modo in cui il Presidente si è espresso su questa ipotesi – citando un inequivocabile discorso del Presidente Segni – conferma la sua attenzione allo spirito della Costituzione. Mi sembra il più consapevole dei guasti istituzionali che questo eventuale scenario provocherebbe.
Quali sono?
Vero è che la rielezione non è esplicitamente vietata ma proprio per questo, dopo il già controverso precedente di Napolitano, si affermerebbe una consuetudine che farebbe diventare regola il doppio mandato. Cambiando la nostra forma di governo. Quattordici anni al Colle sono una durata abnorme, “eterna”, più consona a una monarchia che a una democrazia parlamentare.
Napolitano si dimise prima.
Il diritto costituzionale non può confidare sulla volontà soggettiva delle persone, si basa su regole certe. Napolitano si è dimesso, ma mettiamo il caso che non lo avesse fatto. Chi avrebbe potuto, e come, farlo dimettere?
Si obietta che Mattarella si dimetterebbe “naturalmente” dopo le elezioni politiche del 2023.
Ribadisco, un mandato a termine non è concepibile. Non è nemmeno proponibile: non sarebbe in alcun modo formalizzabile, ponendosi in esplicito contrasto con quanto la Costituzione scrive all’art. 85.
Sarebbe meglio fissare in Costituzione un esplicito divieto di rielezione?
Sì. Sappiamo che in Costituente la discussione fu vivace e molti erano favorevoli a un divieto esplicito, poi non si arrivò a una sintesi e prevalse la scelta di non dir nulla sul punto, con l’effetto di “non vietare”. Si fanno, con cadenza regolare, progetti di grandi riforme costituzionali, sarebbe meglio pensare alla manutenzione costituzionale, come sarebbe vietare la rielezione del Capo dello Stato.
Ci sono anche i fan di “Draghi al Quirinale”, che sostengono la possibilità dell’attuale premier di continuare la sua politica dal Colle.
Continuare la politica di governo al Quirinale? Una tale affermazione dimostra l’ignoranza su quelle che sono le diverse funzioni della Presidenza del Consiglio e della Presidenza della Repubblica: il primo organo di “governo”, il secondo di “garanzia”. Il massimo che un Capo dello Stato può fare è stimolare – oltre che vigilare su – l’attività del Governo e del Parlamento, mai può sovrapporsi o sostituirsi ad essi, non è un organo di indirizzo politico. Confondere funzione di garanzia e funzione di governo è un errore grave, purtroppo oggi commesso da troppi.
Dicono che non ci sono alternative.
In democrazia è questa un’affermazione inammissibile. In democrazia, proprio perché è tale, l’alternativa c’è sempre. Non è dunque un problema di impossibilità, semmai di inadeguatezza: se non ci sono alternative è perché la politica non le trova. Lo dimostra il diffondersi dei cosiddetti “governi tecnici”, cui si accodano le forze politiche. Governi giustificati da situazioni straordinarie, come la pandemia che ha finito per legittimare un governo tecnico d’unità nazionale. Ma possiamo ammettere che uno stato di necessità diventi permanente? La mia maggiore preoccupazione è che non vedo una capacità di rilancio della politica.
Guardiamo ai cicli. Tra Ciampi e Monti passano vent’anni, tra Monti e Draghi dieci: la scorciatoia dell’esecutivo svincolato dal consenso forse ha indotto la politica ad accomodarsi dietro la deresponsabilizzazione dei governi tecnici.
Da tempo assistiamo ad una progressiva neutralizzazione della politica. Sempre più spesso attraverso la tecnica passano scelte di natura squisitamente politica. In alcuni casi questo è comprensibile. Nella lotta alla pandemia la decisione politica non può prescindere da valutazioni tecnico-scientifiche: determinanti risultano dunque le autorizzazioni dalle agenzie come l’Ema o l’Aifa. Altre circostanze sono assai più insidiose. Penso alla crisi economica iniziata nel 2008: una certa tecnica ha preso il sopravvento, ma cosa c’è di più politico del neoliberismo che ha indirizzato le azioni di tutti i nostri governi? Non c’è stato nulla di neutro nelle scelte di politica economica. Ma, ribadisco, l’allarme maggiore è dato dall’afonia della politica. Quando si creano i vuoti, questi vengono colmati.
(Questa intervista è stata pubblicata in una versione parziale e non definitiva, per un errore tecnico, sul Fatto quotidiano cartaceo di domenica 19 settembre 2021)