Da ieri la Corte d’assise d’appello di Palermo è in camera di consiglio e fra pochi giorni ne uscirà per confermare o cancellare le condanne per la trattativa Stato-mafia. In primo grado furono giudicati colpevoli di minaccia a corpo politico dello Stato, oltre ai boss Bagarella e Brusca (Riina e Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Cinà, gli ex capi del Ros Subranni, Mori, De Donno e l’ex senatore Dell’Utri, più Massimo Ciancimino (per calunnia). Ora, come ha spiegato Marco Lillo, tutte le udienze del secondo grado hanno confermato e addirittura corroborato le accuse. Ma un fatto nuovo potrebbe mandarle totalmente o parzialmente in fumo: l’assoluzione definitiva dell’ex ministro Mannino (rito abbreviato). Una sentenza minimalista e revisionista: non solo nega che Mannino abbia istigato il Ros a trattare con i vertici di Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino per salvarsi dalla vendetta mafiosa. Ma addirittura svilisce la trattativa a mera “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria… attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino” in cambio di una sua fantomatica “infiltrazione in Cosa Nostra” per la “cattura di Riina” e la fine delle stragi. Una barzelletta, visto che Ciancimino non si infiltrò in Cosa Nostra, non fece catturare Riina (scovato grazie al pentito Di Maggio e forse alle dritte di Provenzano) e le stragi si moltiplicarono proprio a causa della trattativa, che le aveva rese convenienti agli occhi dei boss.
Si spera che i due giudici togati e i sei popolari non si facciano incantare da queste tesi negazioniste. E si basino su ciò che hanno ascoltato in aula e sulle numerose sentenze, anche definitive, sulle stragi del 1992-‘94, che consacrano la trattativa come un fatto assodato oltre ogni ragionevole dubbio. Del resto, per sapere che la trattativa ci fu, basta rivedersi il video (è su YouTube) delle testimonianze di Mori e De Donno nel ‘97 al processo fiorentino sulle stragi del ‘93. Mori parla tranquillamente di “trattativa” e confessa di aver contattato Ciancimino per tentare di fermare le stragi dopo l’assassinio di Salvo Lima e la mattanza di Capaci (“non si può parlare con questa gente?”) e superare il “muro contro muro” sorto fra Stato e Cosa Nostra (che al generale appariva incredibilmente strano). Anche De Donno la definisce “trattativa”: “A Ciancimino proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro… di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò con delle condizioni”.
Queste: “La condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana a patto di rivelare i nominativi mio e del comandante al suo interlocutore. Facemmo capire a Ciancimino che questa non era una nostra iniziativa personale… Al quarto incontro, Ciancimino si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”. La richiesta del Ros era chiara: l’“immediata cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato”, con l’evidente intenzione di concedere qualcosa ai corleonesi in cambio della “pax mafiosa”. Infatti Riina esulta con i suoi: “Si sono fatti sotto”. Il farsi avanti del Ros è la prova che le stragi pagano. Proprio ciò che si proponeva quando le concepì sullo scorcio del 1991 nel caso in cui, come poi avvenne, lo Stato avesse tradito gli impegni di insabbiare il maxi-processo in Cassazione: “Fare la guerra per fare la pace”. Infatti prepara il “papello” con le sue richieste allo Stato, molte delle quali verranno esaudite nei mesi e negli anni successivi. E le stragi non si interrompono, neppure dopo la sua cattura (13 gennaio ‘93): anzi, proprio per alzare il prezzo, Cosa Nostra alza il tiro. Prima in via d’Amelio a Palermo contro Borsellino e la scorta (19 luglio ‘92), poi a Roma (attentato a Costanzo, 14 maggio ‘93), poi a Firenze (via dei Georgofili, 27 maggio ‘93), infine a Milano e Roma in simultanea (via Palestro e due basiliche capitoline, 27 luglio ‘93). E ottiene la destituzione del capo del Dap, il duro Niccolò Amato, sostituito da un esponente della linea morbida, e la revoca del 41-bis per 334 mafiosi.
La strage fallita e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma (23 gennaio ‘94), tre giorni prima dell’annuncio della discesa in campo di B., chiude la prima trattativa (quella del Ros sotto i governi Amato e Ciampi) e avvia la seconda, con Dell’Utri che – secondo i giudici di primo grado – veicola la minaccia di Cosa Nostra al governo dell’amico Silvio. Il quale, vinte le elezioni del ‘94 anche grazie ai voti di mafia e ‘ndrangheta, prosegue la demolizione dell’antimafia, con attacchi ai pm, ai pentiti, all’ergastolo e al 41-bis e soprattutto con le tre norme filo-mafia contenute nel decreto Biondi (13 luglio ‘94) e anticipate da Dell’Utri a Vittorio Mangano in alcuni incontri nella sua villa sul lago di Como. Il decreto Salvaladri e Salvamafiosi viene ritirato a furor di popolo, ma riassorbito un anno dopo nella “riforma” penale del governo Dini, votata anche dal centrosinistra. Questi sono i fatti, nudi e crudi. E nessuna sentenza negazionista o revisionista potrà mai cancellarli.