L’Autorità palestinese concederà a Joe Biden e a Naftali Bennett ciò che ha sempre rifiutato a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: di abbandonare cioè il progetto di Stato nazionale in cambio di promesse di uno sviluppo economico? In effetti non si è parlato mai così poco della creazione di uno Stato palestinese e della fine dell’occupazione, obiettivi storici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), come da quando Biden è alla Casa Bianca e Naftali Bennett è primo ministro di Israele. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità, sembra pronto a cambiare strategia ora che si prospettano dei piani di sviluppo economico per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
I palestinesi sono sempre più isolati. Dalle rivolte arabe, poi con la guerra civile in Siria, il conflitto in Yemen, la destabilizzazione dell’Iraq, le guerre contro Al-Qaeda prima e l’Isis poi, le tensioni tra l’Iran e il suo vicini, la questione della Palestina è stata oscurata da crisi più spettacolari e urgenti. Come era successo negli anni 60, prima che Yasser Arafat prendesse il controllo dell’Olp nel 1969, i dirigenti attuali degli Stati Arabi e del Golfo hanno preso in mano la questione palestinese, senza consultare i diretti interessati. All’incontro del Cairo di gennaio, per rilanciare i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, in presenza dei ministri degli Esteri egiziano, giordano, francese e tedesco, nessun rappresentante palestinese era stato invitato. Inoltre, dagli accordi conclusi tra Israele e Sudan, Marocco, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, su iniziativa di Trump, e sui quali Biden non è mai tornato, lo Stato ebraico appartiene ormai al blocco degli alleati locali degli Stati Uniti contro l’Iran. Nel suo primo incontro col nuovo premier israeliano, Biden si è limitato a chiedere a Bennett di agevolare la vita dei palestinesi, dicendosi pronto a contribuire finanziariamente. Malgrado la presenza nel governo di Bennett di personalità del centro-sinistra, della sinistra sionista e anche di un ministro islamista, le radici ideologiche del nuovo potere israeliano non sono diverse da quello precedente di Netanyahu. L’influenza della destra nazionalista e religiosa e dei coloni resta dominante. Bennett è ostile quanto il suo predecessore alla creazione di uno Stato palestinese. La continuità è confermata dai dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA): in Cisgiordania, 57 palestinesi, tra cui 12 bambini, sono stati uccisi dall’esercito israeliano dall’inizio dell’anno, e 31 edifici di proprietà di palestinesi sono stati demoliti a Gerusalemme Est. Questo porta il totale degli edifici palestinesi distrutti da gennaio a più di 650. In nove mesi, le Nazioni Unite hanno anche registrato più di 300 attacchi di coloni contro palestinesi. Una differenza tra il governo di Bennett e quello di Netanyahu però c’è. Influenzato da un suo consigliere, il filosofo Micah Goodman, sembra che Bennett abbia deciso di impegnarsi a “ridurre l’intensità del conflitto con i palestinesi piuttosto che di risolverlo”. Non si tratta di porre fine all’occupazione. Goodman, che risiede lui stesso in una colonia, Kfar Adumim, spiega, in un’intervista a Haaretz, che “la maggior parte degli israeliani, anche di destra, non vuole dominare i palestinesi, ma teme che un ritiro israeliano dai territori occupati permetta ai palestinesi di minacciarli”. Per risolvere questo problema, Goodman consiglia di combinare “incentivi economici” nei territori occupati a meccanismi di ”autogoverno” palestinese. Si ipotizza, in particolare, la creazione di “corridoi” per collegare i diversi territori e che permettano l’accesso a un posto di frontiera con la Giordania. “In questo modo – spiega Goodman – i palestinesi avrebbero la sensazione di autogestirsi, ma non sarebbero in grado di minacciare Israele”.
È alla luce di questa strategia di “riduzione del conflitto” che vanno interpretate alcune “misure” sorprendenti avanzate da Bennett in favore dei palestinesi: un prestito di 156 milioni di dollari, a titolo di anticipo sulle tasse doganali raccolte da Israele, la regolarizzazione di migliaia di palestinesi che vivono illegalmente in Cisgiordania, il rilascio di 15.000 permessi di lavoro, mille permessi di costruzione in Cisgiordania in “Zona C” e 5.000 permessi per i commercianti palestinesi per lavorare in Israele. A Gaza, governata dal movimento islamista Hamas, dovrebbero essere ripristinate le linee elettriche e la distribuzione del gas. Dovrebbe inoltre essere costruito un impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare e, a termine, un nuovo collegamento con la Cisgiordania. In cambio, le autorità palestinesi, compreso dunque Hamas, si devono impegnare a mantenere una “calma di lunga durata”. Ciò significa, per Hamas smettere di lanciare razzi su Israele e per l’Autorità di Ramallah accettare l’occupazione e rinunciare alla sua lotta storica. Non sappiamo cosa ne pensi davvero Mahmoud Abbas. “Perché non approfittare delle buone disposizioni degli israeliani, sostenuti da Washington, per risollevare la nostra economia?”, avrebbe detto uno dei suoi consiglieri. “Questa rassegnazione è spregevole – osserva un docente universitario di Ramallah, ex consigliere di Yasser Arafat -. Perché toccherebbe a noi, che viviamo sotto occupazione, accettare delle misure per rassicurare l’occupante?”. Come ha fatto l’Autorità palestinese ad arrivare a questo punto? Forse perché la sua situazione politica non è mai stata così disastrosa. Alla testa dell’Autorità c’è un uomo di 86 anni, dalla salute precaria e senza più alcuna legittimità democratica. Giovani e intellettuali lo denunciano nelle strade, al prezzo di una repressione degna delle peggiori dittature. Alla fine di agosto, 30 attivisti sono stati arrestati in 48 ore per aver manifestato contro il regime. A Hebron, due mesi prima, è morto un dissidente di 40 anni, Nizar Banat, padre di cinque figli, colpevole di aver “denunciato sui social network la corruzione del regime”. Eletto nel 2005, per un mandato di quattro anni, Mahmoud Abbas non ha mai lasciato il potere.
Le divisioni interne agli stessi palestinesi, tra Fatah a Ramallah e Hamas a Gaza, non hanno mai permesso di organizzare elezioni credibili. Annullando il voto dello scorso luglio, per timore di essere battuto dal candidato di Hamas, Mahmoud Abbas ha distrutto l’ultima occasione di una riconciliazione inter-palestinese.
È dunque per tentare di risanare la loro situazione politica, rivendicando i meriti di un eventuale miglioramento economico, alimentato dai dollari israeliani e statunitensi, che i due più stretti consiglieri di Mahmoud Abbas – e possibili successori del presidente palestinese – hanno scommesso sulla “strategia Goodman”? Hussein al-Sheikh, 61 anni, è responsabile dal 2007 degli “Affari Civili” dell’Autorità, ovvero dei rapporti con il governo israeliano. Majed Faraj, 58 anni, capo dei servizi segreti dell’Autorità dal 2007, è membro della delegazione che gestisce i negoziati di riconciliazione con Hamas. Sembra che sia Faraj che al-Sheikh svolgano un ruolo molto attivo nella politica di “riduzione del conflitto” adottata da Bennett e accettata, almeno tacitamente, da Mahmoud Abbas. Come se i futuri dirigenti dell’Autorità, che ancora non si rivendicano tali, fossero convinti che uno Stato palestinese non potrà mai esistere, così come non esisterà mai uno Stato democratico binazionale, e che, allo stesso tempo, date le tensioni geopolitiche regionali e la posizione statunitense, anche l’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi, cioè di una nuova Nakba, sia almeno provvisoriamente esclusa. Non ci sarebbe quindi altra via d’uscita che accettare il vecchio schema coloniale, con i territori occupati trasformati in serbatoio di mano d’opera per l’occupante? Imporre la nuova governance implica di mettere a tacere le critiche e le resistenze. Questo spiegherebbe la violenza utilizzata contro le opposizioni e l’allontanamento di alti funzionari, noti per la loro competenza, ma anche per loro libertà di parola.
(Traduzione di Luana De Micco)