Al contrario di tanti altri, non ho mai giurato sull’innocenza di Mimmo Lucano. Ho sempre apprezzato il grande lavoro da lui svolto in favore dei migranti e dell’integrazione, ma dopo aver letto le carte dell’accusa ho avuto la sensazione che l’ex sindaco di Riace avesse commesso parecchie irregolarità e violazioni di legge durante l’amministrazione del suo Comune.
Allo stesso tempo però nessuno ha potuto convincermi che l’ex sindaco del paesino calabrese si fosse mai incamerato un euro. Per questo sentivo di non avere verità in tasca, di non poter dire se Lucano fosse colpevole o innocente.
Poi, ieri, è arrivata la sentenza. E mi ha lasciato sbigottito. Non per la decisione (provvisoria in attesa dei successivi gradi di giudizio) di considerarlo responsabile per parte dei capi di imputazione e dei gravi reati di cui era accusato. Ma per l’entità del pena: 13 anni e due mesi a fronte di una richiesta, già alta, di sette anni e 11 mesi di reclusione.
Come si dice in questi casi, adesso pure io attendo le motivazioni. Ma già ora so che le carte saranno a posto. Se devi rispondere di associazione per delinquere, peculato, falso più di una serie di abusi in un caso riqualificato in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, Codice penale alla mano, si può arrivare a pene anche molto più alte.
Ma è giusto? Non starò qui a citare il tanto abusato Cicerone che nel De Officiis scrive summum ius, summa iniuria (somma giustizia, somma ingiustizia, ndr). Qui voglio unicamente ricordare che solo qualche giorno prima Marco Siclari, un senatore calabrese di Forza Italia imputato di voto di scambio politico mafioso, in primo grado, era stato condannato a poco più di cinque anni; che Marcello Dell’Utri ne ha avuti sette per concorso esterno in Cosa Nostra; che Callisto Tanzi, l’ex patron di Parmalat responsabile di aver mandato in fumo i risparmi di decine di migliaia di persone, 11; mentre grazie al rito abbreviato, Luca Traini, che nel 2018 tentò a Macerata per motivi razzisti una strage di migranti, se l’è cavata con 12 anni. Possibile che sparare a caso contro chiunque abbia la pelle di un colore diverso (sei tentati omicidi) sia meno grave che infrangere la legge per aiutarli? Per il nostro Codice sì. Per la mia, e credo vostra coscienza, no.
Così adesso mi chiedo cosa penserà della già tanto malandata giustizia italiana un comune cittadino che ieri sera seduto in poltrona dopo una dura giornata di lavoro ha scoperto dal telegiornale la severissima condanna inflitta a Mimmo Lucano. Perché, come aveva capito il filosofo e apologeta cristiano Tertulliano già 150 anni dopo Cristo, a “rendere valide le leggi non sono né il numero dei loro anni né l’autorità dei loro promulgatori, ma unicamente la giustizia”. Ma, rifletto, se la giustizia non viene più percepita come tale da coloro nel nome dei quali viene amministrata, cosa resta di essa? Per questo più che di giudici e delle loro eventuali manchevolezze oggi bisognerebbe parlare delle leggi.
Il nostro Codice penale, ottimo per l’epoca, risale agli anni 30 e su di esso si sono affastellate norme, articoli e pandette. Non si può escludere che di qui al terzo grado di giudizio Lucano si veda ridotta la pena o che venga addirittura assolto. La questione di fondo però resta. Bisogna trovare il modo di dare un senso all’entità delle pene comminate in casi diversi, bisogna trovare un’uniformità reale. Ci vorrebbe un nuovo Giustiniano. Ma in giro purtroppo non se ne vede alcuno.