La crisi di consensi di Matteo Salvini comincia dopo la richiesta dei pieni poteri e si accentua quando arriva il Covid. Orbene, se sull’inizio del declino del leader si è detto parecchio, molto meno si è riflettuto sul ribaltamento della sua comunicazione con l’arrivo della pandemia, salvo sottolineare che l’uscita di scena dei migranti, scacciati dal virus, accorciava il fiato delle sue invettive.
In realtà è successo dell’altro. Si è realizzato infatti, forse a sua insaputa, un vero testacoda nella comunicazione del leader: un errore mediatico incredibile che ci dice come la Bestia sia certo più aggressiva che intelligente, più pancia che cervello. Salvini lo commette quando abbandona la retorica che lo aveva guidato nella sua irresistibile ascesa, quella fondata sulla paura. In primis degli immigrati. Una paura che egli aveva alimentato con sapienza. Del resto la sua strategia intercettava perfettamente, sul piano della psicologia sociale, i bisogni di sicurezza e di riduzione dell’incertezza, rispetto alla realtà e al futuro, di vasti strati di popolazione negli anni della crisi migratoria. Per Salvini era l’arma più forte, che produceva consenso e voti.
Ma cosa succede quando arriva il Covid e la minaccia non sono più i migranti, ma la malattia, non i delinquenti ma i caschi delle terapie intensive? Il bisogno di sicurezza della gente s’incarna adesso nel bisogno di protezione dal virus che uccide. Ed è qui che Salvini, con i suoi spin doctor, perde definitivamente la bussola: invece di andare incontro all’esigenza di difesa dal Covid, che s’incista man mano che passano le settimane nella coscienza della gente spaventata, che fa? Cerca di convincerla che non c’è da preoccuparsi, che il pericolo è l’economia bloccata, che le chiusure sono eccessive. Insomma minimizza la minaccia, al contrario di quanto aveva fatto con i migranti. Un errore politico ma anche un’inversione della sua comunicazione. Così da febbraio 2020 nel gestire la (nuova) paura, lui che ne era maestro, si fa battere da Conte e Speranza, che difatti salgono nei consensi perché capaci di parole e di scelte più convincenti e rassicuranti di fronte al pericolo. Mentre Salvini ribalta il discorso fatto sino ad allora, passando dalla retorica della paura a una inedita, per lui, retorica dell’ottimismo: sulle aperture da fare al più presto, il pericolo ormai trascorso, le chiusure eccessive, le mascherine inutili. Infine i vaccini non necessari.
La sua narrazione entra in collisione con un certo senso comune che, come aveva visto negli sbarchi una minaccia e nel leader un politico capace di opporvisi, adesso si nutre delle preoccupazioni legate alla diffusione rapida e terribile della nuova peste. Da qui il paradosso: se Salvini fosse stato coerente con la sua comunicazione (quella che lo aveva issato al 40% dei consensi), proprio lui, più di altri, avrebbe dovuto battersi contro ciò che poteva favorire la diffusione della malattia, alzando la voce, stringendo i pugni. Invece alimentava il conflitto politico mutando la narrazione della paura nella visione ottimistica, inusuale per lui, del liberi tutti. Negava la minaccia, la banalizzava, la sdrammatizzava. Pensava forse agli interessi di qualche categoria per un istinto di classe, assecondando umori (minoritari) vicini al partito ma lontani dall’immaginario pandemico. Ma perdeva il Paese. Il che la dice lunga, per chiudere, sulle reali capacità sue e del suo staff.
Post scriptum: né si può dire che non abbia comunicato. Da febbraio 2021 al 25 settembre, per dire, ha surclassato tutti gli altri nelle maggiori tv. Ha parlato per 40 ore, contro le 41 di Draghi, le 11 di Conte, le 24 di Meloni, le 15 di Letta. Ma lo ha fatto male. Perché una cosa è certa: la comunicazione in politica non è tutto, ma sbagliarla è grave. Soprattutto per chi comunica troppo. E nel silenzio dell’Agcom.