Otto anni fa avete dato mandato all’OCSE di risolvere il problema dell’elusione fiscale, una pratica dannosa impiegata dalle multinazionali che ha come conseguenza una perdita di gettito fiscale globale di almeno $240 miliardi all’anno. Dopo anni di negoziati ai quali hanno partecipato 140 paesi, l’accordo annunciato lo scorso venerdì dimostra che è possibile cambiare un sistema creato 100 anni fa. L’accordo riconosce il principio base della necessità di un’imposta globale minima effettiva per mettere fine ai paradisi fiscali. Con un’imposta globale minima, non importa in quale paese le multinazionali registrano i propri utili, questi saranno soggetti ad un’aliquota almeno pari alla minima.
L’accordo riconosce inoltre il principio che le multinazionali sono imprese unitarie che operano in diversi paesi e che i loro utili dovrebbero essere tassati in base alle attività reali nei singoli paesi attraverso l’uso di una formula che riflette i vari fattori che generano utili (personale, fatturato, beni…), non permettendo quindi più alle multinazionali di scegliere dove registrare i propri utili.
Tuttavia, questo processo di riforma è stato talmente indebolito che beneficerà in maniera sproporzionata i paesi ricchi. Le proposte per un’imposta globale effettiva minima del 21% (o ancora meglio del 25% come noi proponiamo) sono state respinte nella ricerca del denominatore comune più’ basso, il 15%, una vittoria per l’Irlanda ma una sconfitta per il resto del mondo.
Una riforma che avrebbe potuto generare più di 200 miliardi di dollari di gettito addizionale globale con un’aliquota del 21%, con un’aliquota del 15% ne porterà solamente 100 miliardi di dollari. Inoltre, dando la priorità nel diritto ad applicare l’imposta minima ai paesi dove risiedono le capogruppo delle multinazionali, la gran parte dei ricavi aggiuntivi andranno a un ristretto circolo di paesi ricchi. Questo mette da parte il principio di equità che avete convenuto, ovvero che le multinazionali debbano essere tassate dove gli utili sono prodotti.
Ci sono legittime preoccupazioni che un’imposta globale minima così bassa finisca per diventare lo standard globale e che quindi una riforma partita con l’intenzione di far pagare le multinazionali il loro “fair share” finisca per ottenere l’effetto contrario. I paesi in via di sviluppo, che fanno affidamento in modo maggiore sull’imposta sui redditi delle imprese per finanziare le spese pubbliche, risulterebbero i grandi sconfitti. Così come le piccole e medie imprese nei paesi sviluppati, che continueranno a pagare l’aliquota intera nazionale.
Particolarmente problematica è la proposta di un nuovo meccanismo di ripartizione degli utili tra Paesi, ma che si applicherà solamente alle 100 più grandi e profittevoli multinazionali e che ripartirà solamente una piccola parte dei profitti globali. La richiesta di un impegno da parte dei paesi a ritirare e a non introdurre misure unilaterali per assicurarsi che le imprese digitali non soggette a queste nuove regole paghino le tasse è semplicemente ingiusta.
Proposte concrete avanzate da paesi in via di sviluppo ed emergenti, inclusi paesi del G20, per assicurare che tutte le multinazionali paghino le tasse dove ci sono attività economiche e permettere ai paesi dove vengono generati i profitti di applicare la tassazione minima sui pagamenti per servizi e sulle plusvalenze (la cosiddetta “Subject to Tax Rule”), che sono utilizzati dalle multinazionali per spostare profitti dai loro paesi verso I paradisi fiscali, sono state ignorate. Lo stesso trattamento hanno ricevuto le ripetute preoccupazioni relative alle nuove regole obbligatorie per la soluzione di controversie.
I negoziati si svolgono mentre il mondo sta lentamente uscendo dalla pandemia. In questo contesto, i paesi sviluppati si stanno riprendendo più velocemente rispetto ai paesi in via di sviluppo, che hanno meno spazio fiscale. Inasprire questa divergenza e fallire nel provvedere risorse sufficienti a sostenere la crescita nei paesi in via di sviluppo è economicamente folle. Farlo durante una pandemia globale, dove il bisogno di risorse per la sanità pubblica e la ripresa economica e’ più forte che mai, è anche socialmente ingiusto.
Dopo il nazionalismo sui vaccini e l’accaparramento da parte dei Paesi avanzati, questo accordo non migliora la solidarietà globale. Al contrario, va contro gli impegni globali siglati nella Carta delle Nazioni Unite, incluso quelli relativi ai diritti umani e gli Obiettivi per Lo Sviluppo Sostenibile, ed in particolare l’obiettivo numero 10 di ridurre le disuguaglianze tra paesi.
In generale, l’attuale accordo non nasce sulla base di un’analisi economica corretta della tassazione degli utili delle imprese e rinforza le disuguaglianze globali. Dal punto di vista dei Paesi in via di sviluppo, può essere visto solamente come una soluzione temporanea alla quale dover sottostare. In mancanza di soluzioni sostenibili, ai paesi non dovrebbe essere impedito di inseguire soluzioni alternative, come la Web Tax, che già produce gettito, o le soluzioni per la tassazione dei servizi digitali sviluppate dal Comitato fiscale delle Nazioni Unite.
Le negoziazioni devono continuare durante la presidenza dell’Indonesia nel 2022 e dell’India nel 2023 ma in un format diverso che riconosca il fallimento degli ultimi due anni nel dare voce ai paesi in via di sviluppo. Questo dovrà portare necessariamente ad un nuovo round di negoziati, più inclusivo, che possa consegnare un nuovo accordo fiscale globale al mondo.
Dare risposte ai complessi problemi globali di oggi, dall’offrire servizi pubblici sufficienti all’affrontare la crisi climatica, richiede una visione che mette la ricerca del bene comune davanti all’interesse nazionale. Vuol dire scegliere di stare dalla parte non di multinazionali e paradisi fiscali, ma di cittadini sia nel Nord che nel Sud del mondo. La storia vi giudicherà aspramente se fallirete questa occasione.
I firmatari sono membri di ICRICT, la commissione indipendente per la riforma della fiscalità delle multinazionali.
Edmund Fitzgerald, professore di economia all’Università di Oxford, Jayati Ghosh, professore di economia, Università del Massachusetts Amherst, Kim S. Jacinto Henares, consulente fiscale internazionale, Eva Joly, avvocato ed ex parlamentare europeo, Ricardo Martner, economista, Suzanne Matale, ministro della Chiesa Episcopale Metodista Africana, Leónce Ndikumana, professore di economia all’Università del Massachusetts Amherst, José Antonio Ocampo (presidente), professore di economia alla Columbia University, ex ministro delle finanze della Colombia, Irene Ovonji-Odida, avvocato, Thomas Piketty, professore alla EHESS e alla Scuola di Economia di Parigi, Magdalena Sepúlveda Carmona, direttore esecutivo dell’Iniziativa globale per i diritti economici, sociali e culturali (GI-ESCR), Joseph E. Stiglitz, professore alla Columbia University, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 2001, Wayne Swan, presidente nazionale del partito laburista australiano, ex ministro delle finanze dell’Australia, Gabriel Zucman, professore associato di economia all’Università della California a Berkeley.