La storia non si fa con i se. Ma di certo fa rabbia leggere ne La stanza numero 30, il libro di Ilda Boccassini, come qualcuno (un funzionario dello Stato o un magistrato?) abbia con una fuga di notizie “consapevolmente” bruciato, alla vigilia delle elezioni politiche del 1994, le indagini sul denaro che, secondo i pentiti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri versavano periodicamente a Cosa Nostra. Soldi Fininvest che, stando alle sentenze definitive, sono stati per anni effettivamente ricevuti da Toto Riina, ma solo fino al 1992 e non in epoca successiva alle stragi.
Prima però di chiederci chi sia la talpa e perché lo abbia fatto, vediamo i fatti. Il 18 febbraio 1994, Boccassini è a Caltanissetta per indagare sulla morte di Giovanni Falcone. Quel giorno, da sola, interroga Salvatore Cancemi, il reggente del mandamento mafioso di Porta Nuova. Cancemi in altri interrogatori ha già detto che Riina si era vantato con Raffaele Ganci, capo mandamento della Noce, di essersi incontrato, prima della strage di Capaci, con “persone importanti”. Personaggi esterni alla mafia che gli avevano tra l’altro garantito la revisione dei processi in cui proprio Riina era stato condannato.
Il 18 febbraio Cancemi e Boccassini sono così l’uno davanti all’altra. Il boss deve spiegare. E lo fa: dice che quei nomi non gli furono mai svelati da Ganci, ma aggiunge di aver intuito qualcosa. Perché sa che, almeno fino al luglio del 1993, “un intermediario di Cosa Nostra si era adoperato per far transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro provenienti da Berlusconi”. Cancemi, scrive Boccassini nel suo libro, ricorda “di aver assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire in banconote usate”. E afferma di essere sicuro che le consegne di soldi fossero ancora in corso.
L’inchiesta dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Per il pentito, chi materialmente riceve a Palermo il denaro di Berlusconi è Pierino Di Napoli, il capo della famiglia di Malaspina. Per stabilire se ha ragione basta controllarlo 24 ore al giorno. Se si assiste a una consegna si fa bingo. Boccassini incarica così il capitano Ultimo, il migliore dei suoi investigatori, di sorvegliare Di Napoli e invia una copia del verbale alle Procure di Firenze e di Palermo. Il 21 marzo 1994, però, esattamente tre giorni prima delle elezioni che avrebbero portato al governo Berlusconi, Repubblica, a firma di Attilio Bolzoni e Peppe D’Avanzo, pubblica tutto. Di Napoli si rinchiude in casa senza muoversi più. L’indagine di Ultimo muore.
Capire chi e perché ha dato quasi in tempo reale il verbale di Cancemi ai due autori dello scoop diventa importante. Per 17 anni il mistero resiste. Poi una sera, davanti a un bicchiere di whisky, D’Avanzo, che morirà di lì a poco, rivela alla sua amica Boccassini il nome della fonte. Racconta di aver ricevuto una telefonata a casa da parte di una persona che conosceva da anni. Di essere stato invitato dalla fonte nella sua abitazione romana, distante una decina di minuti in auto, di aver trovato lì un uomo “con le lacrime agli occhi e delle carte in mano”: i verbali segreti di Cancemi.
Boccassini nel libro non ne fa il nome. Spiega solo che la fonte di D’Avanzo era un persona “nota a tutti per l’aplomb, la razionalità e l’estrema freddezza”. Chi è? Noi, senza averle parlato, siamo convinti che Boccassini abbia scritto tutto questo perché si attende di essere sentita come teste da chi ancora indaga sulle stragi. Anzi lo chiede. Confidiamo che qualcuno le risponda.