Quest’ultima tornata di Amministrative che si va a concludere coi ballottaggi è stata largamente interpretata come una ricomposizione moderata della platea elettorale dopo la sbornia “populista” del 2018-2019, in specie per i buoni risultati percentuali del centrosinistra e il tonfo di Lega e M5S. Il Fatto ha già mostrato come, esaminando i voti assoluti (e dunque non le sole percentuali), questa interpretazione sia poco sensata e non solo perché il voto locale è sempre diverso da quello nazionale: i partiti mainstream come Pd e Forza Italia hanno continuato a perdere consensi, il centrismo è irrilevante e l’elettorato che ha mandato in crisi il bipolarismo sciatto della Seconda Repubblica a questo giro si è semplicemente inabissato, scegliendo l’astensione in percentuali mai viste prima (46% totale, oltre il 50% in quasi tutte le grandi città). Tornare al business as usual come se la tempesta fosse passata non è una buona idea e qui cerchiamo di mostrare come le ragioni che avevano cambiato le abitudini di voto degli italiani (incredibilmente stabili lungo la Prima Repubblica e all’inizio della Seconda) siano ancora tutte lì: la “ribellione” non è finita e domanda ancora risposte che non arrivano.
Gli studi. Per provare a spiegarci useremo due studi – uno appena presentato e l’altro del 2020 – di un team di studiosi dell’Università di Roma Tre e della Scuola Normale Superiore: The electoral consequences of inequality in Italy, 1994- 2018 e Inequality and voting in Italy’s regions. In sostanza Francesco Boise, Daniela Chironi, Donatella Della Porta e Mario Pianta hanno incrociato i risultati elettorali delle Politiche nelle regioni italiane con alcuni parametri economici come l’indice di disuguaglianza, i cambiamenti nei salari, i livelli di ricchezza, la precarizzazione del lavoro, il tasso di disoccupazione, eccetera. Ovviamente questi dati non spiegano tutto, niente spiega tutto, ma la correlazione tra alcuni fenomeni e certi risultati elettorali è assai ben fondata a livello statistico e ci spiega che la realtà è un bel po’ più complicata delle parole “populismo” o “sovranismo” in cui la si vorrebbe rinchiudere.
Se, come questi studi, si analizzano i numeri a partire dal 1994 si vede che il peggioramento delle condizioni di vita di molti italiani procede di pari passo con l’aumento dell’astensionismo e la perdita di consensi dei “partiti di sistema”, che hanno di fatto realizzato le stesse politiche pro-ricchi sotto bandiere diverse: la discesa diventa una valanga dopo la grande crisi finanziaria del 2008.
Più poveri, più precari. Qualche dato darà l’idea: “Tra 1994 e 2018 i redditi da lavoro (prima di imposte e trasferimenti) sono diminuiti in termini reali per tutte le fasce di reddito, ad eccezione del 10% più ricco, che nel 2018 aveva gli stessi redditi reali del 1994. Le perdite di reddito reale sono minori per le classi medie e maggiori per gli italiani a basso reddito, raggiungendo il 25% per il 10% più povero. La quota di lavoratori a tempo parziale nel settore privato è passata dal 14 al 25%”. Lo studio appena pubblicato suggerisce, insomma, che “l’impoverimento, la precarizzazione e la disuguaglianza svolgono un ruolo importante nell’influenzare il comportamento di voto e, di conseguenza, la configurazione del sistema dei partiti”.
L’esempio centrosinistra. Prendiamo come riferimento il centrosinistra, l’area politica che è rimasta più stabile in questi tre decenni: “Il sostegno del centrosinistra è maggiore nelle regioni più ricche ed economicamente più attive ed è minore dove sono più presenti i lavoratori part-time più poveri. Quest’ultima relazione mostra però un notevole cambiamento di segno quando si considerano separatamente il primo e il secondo periodo (fino al 2007 e dopo, ndr). Nel primo periodo le regioni con maggiore precarizzazione hanno votato di più per il centrosinistra, mentre nel secondo periodo è avvenuto il contrario. Nel periodo post-crisi il voto per il centrosinistra appare associato a maggiori disuguaglianze complessive: è maggiore nelle regioni con maggiori disparità di ricchezza, dove i ricchi sono più distanti dal reddito medio da lavoro dipendente e dove il reddito mediano è più vicino ai guadagni dei poveri”. La perdita di consensi, tanto in termini percentuali che in numeri assoluti, come detto riguarda tutti i partiti mainstream, Forza Italia in primis: “In effetti, la ricchezza netta è l’unico driver positivo del voto per i partiti tradizionali in tutti i nostri risultati”. Il che ne spiega anche la parziale tenuta nei grandi centri metropolitani.
Onda populista? Falso. Esiste ed è esistita in questi anni una sempre più rilevante percentuale di scelte elettorali “anti-sistema”, dai grillini alla Lega salviniana fino all’astensione, ma non va messo tutto nello stesso calderone (“non abbiamo trovato prove di una generale onda populista”), anche se tutte queste scelte sono fortemente correlate col deterioramento delle condizioni economiche che ha riguardato larghi strati della popolazione.
I casi Lega e M5S. Anche se si tratta di voti “ribelli”, quelli per i due partiti usciti vincitori negli ultimi anni nel voto nazionale non sono elettorati sovrapponibili. Ad esempio, “la Lega ha un consenso maggiore dove i redditi dei ceti medi si sono abbassati avvicinandosi a quelli dei poveri e dove la distanza tra i ceti medi e i lavoratori più pagati è minore” e alto è il tasso di lavoro precario. Invece “il sostegno al M5S è chiaramente caratterizzato da povertà” oltre che da un’alta incidenza di impieghi precari: in sostanza la prima è una risposta che pare aver convinto la classe media in difficoltà, il secondo i poveri diventati ancor più poveri.
L’oceano degli astenuti. L’astensione infine – pressoché raddoppiata alle Politiche tra 1994 e 2018 – dalla crisi finanziaria in poi è fortemente associata a diffusione del lavoro povero e del part-time e a un alto tasso di disoccupazione. Risposte diverse che “hanno però comuni radici in una società più polarizzata, impoverita e disuguale”. Il magmatico malcontento da cui è nata la ribellione dell’elettorato allo status quo è, concludendo, ancora lì e affonda le sue radici in decenni di politiche che, senza distinzioni, si sono dedicate soprattutto a tutelare la ricchezza – tanto a livello reddituale che patrimoniale – mentre la gran parte del Paese pagava il conto delle continue crisi: se anche i cicli vincenti di M5S e Lega fossero arrivati al termine, quell’elettorato è ancora in cerca di risposte. Chi, lunedì, fosse tentato di pensare che la parentesi è finita, che tutto è come prima e si può tornare a vivere del moderatismo come lo abbiamo conosciuto – che è l’immoderata crescita degli squilibri e dell’esclusione sociale – rischia di avere pessime sorprese quando si andrà a votare davvero.