Le montagne crollano. È il loro destino, la legge della natura, l’evoluzione che segue il suo corso. Le valli, le montagne e le pianure sono abitualmente considerate come forme che non cambiano nel tempo. In realtà la superficie del nostro Pianeta si trasforma di continuo, ma in modo troppo lento perché noi possiamo accorgercene. La regola dell’antropocene è che ogni cosa deve essere a misura d’uomo: se un essere umano ha l’unità di misura di circa 100 anni, cioè la durata approssimativa della propria vita, le rocce appaiono inanimate, quando invece esse hanno una vita che dura ere geologiche, tempi lunghissimi che noi non riusciamo a misurare, non entrano nel nostro concetto di “vita”. Se i tempi di trasformazione accelerano bruscamente, allora sì che ce ne accorgiamo.
Ha destato scalpore l’ultimo crollo, quello nel gruppo del Sorapiss lo scorso 9 ottobre. Migliaia di metri cubi di roccia sono franati a valle, coinvolgendo fortunatamente una zona non abitata nel comune di San Vito di Cadore, a pochi chilometri da Cortina. Ma non si tratta di un evento isolato.
Probabilmente la più impressionante tra le frane in roccia delle Alpi è quella di Flims, nella parte svizzera dell’alta valle del Reno, datata con metodi radiometrici a circa 8.000 anni fa: l’enorme frana coinvolse circa 10 km cubi di roccia calcarea, che si staccò dalle pareti della montagna chiamata Flimserstein e, precipitando da una quota di quasi 2000 metri, scivolò lungo la superficie marnosa debolmente inclinata e infine si arrestò nella valle del Reno, circa 12 km più a valle, causando un lago di sbarramento (ora fossile) chiamato Ilanz. Il 24 novembre 1248 la frana del monte Granier nell’alta Savoia provocò oltre 5000 vittime, probabilmente a causa delle fortissime e prolungate piogge che, nei giorni precedenti, avevano riempito il reticolato carsico delle formazioni calcaree, imbevendo le sottostanti marne argillose e trasformandole in una massa fangosa instabile. A Piuro, in provincia di Sondrio, nel settembre del 1618 una frana di 6 milioni di metri cubi di roccia seppellì l’abitato con i suoi 1200 abitanti.
La gravità delle conseguenze di una frana dipende solo in parte dalle sue dimensioni. In aree poco popolate può capitare che il crollo di un intero versante avvenga senza testimoni, mentre un piccolo smottamento in una zona urbanizzata può provocare centinaia di vittime. Il grande disastro è il risultato di una sfortunata combinazione di elementi, ma non sempre si tratta di fatalità: spesso gioca un ruolo importante l’errore umano, anche quando la frana ha avuto cause del tutto naturali.
La notte tra il 9 e il 10 ottobre del 1963, dal versante nord del monte Toc, franarono 270 milioni di metri cubi di roccia nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont. Un’enorme ondata d’acqua risalì per centinaia di metri il versante opposto, scavalcò la diga, si scaraventò nella stretta gola sottostante e dilagò nella valle del Piave. Longarone, un paese che si trovava allo sbocco della gola, fu letteralmente cancellato, mentre numerosi altri centri della valle furono devastati dall’onda di fango; si stima che le vittime siano state più di duemila, ma non è stato mai possibile stabilire il numero esatto. Tecnici e ingegneri avevano previsto che la frana sarebbe scesa a velocità molto più bassa di quanto accadde in realtà, addirittura si sarebbe dovuta “sedere su se stessa” nelle testuali parole di uno dei progettisti.
L’uomo è l’unico animale che, anziché adattarsi all’ambiente, vuole a tutti i costi adattare l’ambiente alle proprie esigenze. E pretende di governarne le regole, spesso sbagliando. La dimensione e la quantità di energia dei grandi fenomeni franosi in roccia è enormemente superiore alle possibilità dell’uomo di porre in opera qualsiasi strategia di controllo degli eventi, ma non lo vogliamo accettare; questo vale anche per i terremoti, le alluvioni, i disastri da inquinamento, il degrado delle risorse ambientali, i cambiamenti del clima ecc.
È altamente probabile che vi sia uno stretto legame tra le variazioni del clima e le dinamiche delle pareti rocciose: l’aumento delle temperature causa lo scioglimento del permafrost, cioè il terreno che era perennemente sottozero ad alte quote e che agiva da “collante”, incidendo sulle condizioni termiche delle rocce o dei versanti variandone le proprietà meccaniche e, quindi, la resistenza del materiale. Ma non solo. Piero Villaggio, scomparso nel 2014, fratello gemello del più famoso attore Paolo, accademico del CAI, docente presso la Normale di Pisa e membro dell’Accademia dei Lincei, a proposito dello sgretolamento nel 2004 della Torre Trephor nel gruppo delle Cinque Torri ebbe a dire: “Sappiamo tutti che le montagne dolomitiche poggiano su un sottofondo soffice. Quindi l’equilibrio delle torri più esili e inclinate è più precario. Ma, circa quarant’anni fa, tutto il pendio a monte del Gruppo venne letteralmente arato per costruirvi un impianto di discesa, sradicando la vegetazione e frantumando i massi. Questa operazione ha alterato la permeabilità del terreno e la consistenza statica degli strati sottostanti le Cinque Torri. Non c’è alcuna correlazione tra la devastazione e il crollo? Ritengo di sì e che si possano determinare quasi esattamente i fattori del degrado meccanico delle faglie”.
Le montagne crollano, dunque. Con o senza aiuto. Possiamo accettare il motto biblico della profetessa Deborah per cui “le montagne sono sabbia agli occhi del Signore”, magari impegnandoci per non accelerare un processo naturale; tuttavia i recenti interventi effettuati lungo la via ferrata Bepi Zac in Trentino con colate di cemento armato per consolidare la roccia o le ruspe al lavoro alla Fara di San Martino al Parco della Majella in nome della sicurezza testimoniano il persistere della convinzione che l’uomo deve dominare le forze della natura ad ogni costo, plasmandole a proprio uso e consumo. Forse meglio sarebbe rimanere spettatori restando a debita distanza, riconoscendosi “docile fibra dell’universo” per dirla con il poeta Ungaretti.