Pubblichiamo un estratto del libro di Luigi Di Maio “Un amore chiamato politica (edito da Piemme) in cui l’attuale ministro degli Esteri ricorda come maturò, il 14 maggio 2018, la decisione di indicare Giuseppe Conte (avvocato e docente universitario indipendente, che aveva accettato di far parte della lista dei possibili ministri 5 Stelle prima del voto del 4 marzo) come presidente del Consiglio del governo gialloverde fra il M5S e la Lega.
Io, Spadafora, Salvini e Giorgetti eravamo a colloquio con il professor Giulio Sapelli. Devo ammettere che mi sorprese, ebbe parole lusinghiere per le istituzioni dello Stato, ci raccontò la sua esperienza all’Eni, approfondì alcuni passaggi sui nostri interessi geostrategici. Condivideva anche alcuni punti del nostro programma economico, in particolare era d’accordo su una ripresa delle partecipazioni statali. Era una persona preparata e si capiva che sapeva farsi valere. L’ago della bilancia si stava fortemente spostando verso di lui, anche se dovevamo ancora parlare con Conte. Il problema si pose poco dopo. I leghisti sono infatti famosi per non sapersi tenere nulla, hanno la smania di lasciare filtrare qualsiasi indiscrezione, ne fanno in pratica una linea strategica. Così qualcuno spifferò di quell’incontro e Sapelli, finito il colloquio, la mattina dopo fu intercettato da Radio Cusano Campus, che lo intervistò. Alle domande rispose con un certo piglio, svelò alcuni retroscena in un momento in cui si chiedeva riservatezza. Confermò di essere stato chiamato per fare il presidente del Consiglio. Mai passo fu più falso. Si bruciò con le sue stesse mani.
A quel punto quello di Giuseppe Conte sarebbe stato un gol a porta vuota. Tuttavia, lui non sottovalutò la situazione. Al suo arrivo in hotel indossava una camicia, il primo bottone sbottonato, la sua abbronzatura era forte, decisa, molto estiva e gli conferiva un’aria spensierata. Veniva dal Circeo, o da Gaeta, non lo ricordo con esattezza. Impeccabile nei modi, si pose nei confronti di ciascuno di noi con umiltà, mostrando un grande spirito collaborativo. Fece breccia anche in Salvini che, al termine del colloquio, si disse convinto. Un suo strettissimo collaboratore, anche lui presente, si intromise e avanzò un timore, che poi si sarebbe rivelato profetico: «Matteo, sei sicuro? Non è che poi questo ci diventa il Macron italiano?». «Ma figurati!» ribatté Salvini. In effetti di tutto avremmo potuto immaginare in quel frangente, fuorché l’ascesa che avrebbe poi compiuto Conte.
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