La COP26 che si terrà questo novembre a Glasgow deciderà del funzionamento del Sustainable Development Mechanism, un nuovo mercato globale per lo scambio di crediti di carbonio. Il commercio del carbonio è la punta di diamante dell’azione internazionale contro il cambiamento climatico perché permette di decarbonizzare l’economia senza intaccare il benessere dei paesi industrializzati, almeno secondo la visione “neoliberista” che continua a prevalere nelle istituzioni internazionali.
Esistono due categorie di crediti scambiati sui mercati del carbonio: emission permits e carbon offsets. Vediamo prima che cosa sono gli emission permits. Al fine di rispettare i vincoli di riduzione delle emissioni di gas serra decisi dal Protocollo di Kyoto i paesi industrializzati impongono un tetto sulle emissioni delle proprie industrie più inquinanti distribuendo un numero limitato di permessi di emissione. La singola impresa che supera il suo limite di inquinamento deve scegliere se effettuare le modifiche tecniche necessarie a ridurre le sue emissioni oppure se acquistare ulteriori permessi da altre imprese più virtuose (che sono rimaste al di sotto del loro limite). La scelta dipende ovviamente da quale delle due opzioni sia meno costosa; in questo senso, secondo gli economisti neoliberisti, il carbon trading permette di decarbonizzare l’economia nel modo più efficiente, ossia al minimo costo. L’Emission Trading System (ETS) dell’Unione europea è stato il primo mercato di permessi di emissione al mondo ed è tuttora il più esteso.
Passiamo ai carbon offsets. Il Clean Development Mechanism (CDM) istituito a Kyoto permette ai paesi industrializzati di soddisfare parte dei propri obiettivi di riduzione delle emissioni finanziando progetti di “sviluppo pulito” nel Sud del mondo. Si tratta di progetti che promettono una riduzione delle emissioni globali ad esempio tramite la protezione di una zona a rischio deforestazione oppure la costruzione di una centrale idroelettrica. Il meccanismo, in linea teorica, è molto semplice: al termine di un processo di verifica il progetto nel Paese in via di sviluppo riceve un certo numero di crediti chiamati Certified Emission Reductions (CERs) che possono essere acquistati da operatori pubblici e privati occidentali per compensare un eccesso sui vincoli di emissione cui sono soggetti. Il requisito primario di ogni progetto di offsetting è l’addizionalità, ossia il fatto che non sarebbe stato realizzato in assenza del meccanismo (e dunque che compensi davvero le emissioni di chi acquista i crediti). Oltre al CDM che è regolato dalle Nazioni Unite esiste anche un mercato “libero” di carbon offsets, il Voluntary Carbon Market (VCM), dove imprese, organizzazioni e singoli individui possono comprare crediti per ridurre spontaneamente la propria impronta di carbonio.
Le problematicità legate al carbon trading possono essere schematizzate in 5 punti:
FALSE EQUIVALENZE. Per definizione il carbon trading pone un’equivalenza tra tutti gli interventi e progetti che comportano una stessa riduzione delle emissioni di gas serra nel breve periodo. Ma questa equivalenza è falsa. Nell’ottica della transizione ecologica, un efficientamento di routine che rimuove gli sprechi di energia in un vecchio impianto a carbone non ha la stessa importanza di un’innovazione tecnologica che spinge un processo produttivo verso l’indipendenza dalle fonti fossili. Il carbon trading per sua natura favorisce le modifiche “marginali”, meno costose, rispetto alle vere trasformazioni di sistema di cui avremmo bisogno.
ANCORA PROFITTI. Durante le prime due fasi di funzionamento dell’EU ETS, anche a fronte dell’attività di lobbying delle grandi imprese europee, la Commissione europea ha distribuito gratuitamente più del 90% dei permessi di emissione, e in numero così grande che il prezzo dei crediti è crollato annullando ogni incentivo alla decarbonizzazione. I profitti ottenuti vendendo gli abbondanti crediti sui mercati del carbonio internazionali hanno di fatto rappresentato un sussidio per le industrie europee. Va poi sottolineato che i mercati del carbonio costituiscono una grande opportunità di profitto per un’intera classe di broker, consulenti e operatori finanziari.
FALSE COMPENSAZIONI. Definire il numero di CERs prodotti da un progetto di carbon offsetting richiede la formulazione di un’ipotesi sulle emissioni che si sarebbero verificate in sua assenza, e questa ipotesi è per forza in parte arbitraria. Più in generale, è difficile valutare l’addizionalità di un progetto, come anche controllare che il taglio delle emissioni sia permanente (che non ci siano “perdite” di carbonio), ed è difficile, forse impossibile, appurare che una pratica inquinante evitata in un luogo non sia semplicemente localizzata altrove. È ormai noto che moltissimi progetti del CDM sono stati valutati in modo troppo “generoso”, il che significa che c’è stata una “falsa” compensazione degli eccessi di emissione dei paesi industrializzati.
QUALE SVILUPPO. Il carbon trading induce a localizzare i progetti di riduzione delle emissioni dove il loro costo-opportunità è più piccolo, quindi sulle terre dei piccoli coltivatori e dei popoli indigeni nei paesi del Sud del mondo, favorendo così il fenomeno del “land grabbing” ossia l’appropriazione delle terre da parte delle élite locali e delle multinazionali. Si parla di land grabbing, ad esempio, quando i progetti di conservazione impediscono agli abitanti del luogo l’accesso alle foreste, o quando la costruzione di grandi impianti rinnovabili, come le centrali idroelettriche, sconvolge gli equilibri ecologici e le economie locali. In questo modo, tra l’altro, i progetti di offsetting distruggono i contributi dei popoli indigeni alla definizione di forme di sviluppo economico alternative ed ecologiche.
FALSA INFORMAZIONE. La complessità tecnica che caratterizza i mercati del carbonio riesce a oscurare quanto poco si stia facendo a livello internazionale per contrastare il cambiamento climatico. In senso più generale il carbon trading nasconde l’impossibilità di conciliare un sistema economico votato alla continua accumulazione di capitale con un sistema-Terra dotato di risorse naturali finite. In effetti a partire dagli anni ‘90 la strategia delle grandi imprese nei confronti della causa ambientalista si è spostata dalla guerra aperta alla formazione di “alleanze” con i governi e le organizzazioni ambientaliste proprio con l’obiettivo di neutralizzare gli aspetti più “rivoluzionari” del messaggio ecologista.
Alla luce di queste considerazioni appare evidente che la regolamentazione diretta e la tassazione delle emissioni siano strumenti di gran lunga più efficaci per realizzare velocemente la decarbonizzazione dell’economia. Continuare a preferire il carbon trading significa porre ancora gli interessi delle multinazionali al di sopra del bene comune. In vista della COP26 è opportuno che le forze ecologiste prendano parola con decisione contro uno strumento di mercato che di fatto ritarda il cambiamento di sistema necessario ad affrontare la crisi climatica, oltre a giustificare nuove forme di sfruttamento nel Sud del mondo.