Tutt’intorno, puzzo di morto. È l’odore di corpi bruciati nell’impianto di cremazione del Comune di Napoli, distante pochi chilometri. Quando l’aria è limpida, arriva a pervadere le campagne tra Caivano e Afragola, nei reticoli dei Regi Lagni. Zona di agricoltura, di paludi. Terra di rifiuti, e di fuochi. Il cadavere di Antonio Natale, 22 anni, scomparso il 4 ottobre scorso, è stato ritrovato qui, una settimana fa. Tra un campo di broccoletti e uno di insalata, alle spalle di un insediamento rom abusivo, una carcassa di un frigorifero rotto e una macchinina per bambini a segnarti la strada.
“La camorra mi deve ridare mio figlio, vivo o morto. Nemmeno i cani scompaiono così”, aveva detto la madre in tv. E la sorella, col megafono in mano, ogni sera andava strillando per il Parco Verde: “Ridiamo Antonio alla mamma! Perché Antonio può essere figlio di tutti noi”. Antonio, a mamma Anna, gliel’hanno ridato. O, meglio, gliel’hanno fatto trovare. In avanzato stato di decomposizione. Riconoscibile solo per i tatuaggi e qualche brandello di tuta nera e rossa che indossava. Sul corpo, diversi fori da colpo di pistola. A indicare ai carabinieri il luogo di seppellimento una cartomante, che così sentenziava: “Vedo guai, grossi guai. Vedo sangue, morte, carcere. Vedo ’i guardie (i poliziotti, ndr)”.
Antonio è l’ultimo morto di una scia di sangue che, tra la periferia Nord ed Est di Napoli, ha visto cadere in due mesi quattro ragazzi: 22, 23, 19, 25 anni. Uccisi da killer coetanei. Ventenni che ammazzano e ventenni che vengono ammazzati. Per vendette trasversali. Per epurazioni. Per “sgarri da punire”, come un ammanco di soldi della droga. Un carico di “ferro” sparito. O una qualsiasi altra “insubordinazione”. Giuseppe Fiorillo, 19 anni, di Secondigliano, è morto il 9 ottobre scorso. A pochi passi dalla storica roccaforte dei Di Lauro. Due colpi per farlo cadere, altri otto per non farlo rialzare. Si era interessato alla ragazza sbagliata, fidanzata col figlio del guardaspalle del clan reggente: e Giuseppe – padre di un figlio e in attesa del secondo, con precedenti per spaccio – s’illudeva di portargliela via. Carmine D’Onofrio, 23 anni, è stato invece ammazzato a Ponticelli, il 6 ottobre. In quell’anfiteatro naturale che è la periferia che degrada verso il mare di Napoli, siamo scesi più a Est. Sette spari a bruciapelo, sotto gli occhi della compagna incinta. Manovale, appassionato di teatro, incensurato, la colpa di Carmine era di essere figlio – peraltro non riconosciuto – di Giuseppe De Luca Bossa, ovvero nipote di Tonino ’o sicco, boss ergastolano del “Lotto 0”. È stato ucciso per “reazione”, Carmine: i De Micco – altro clan storico del quartiere, in guerra da anni contro i De Luca Bossa – dovevano rispondere alla bomba fatta esplodere nel quartier generale del 37enne Marco De Micco detto “Bodo”, scarcerato da poco.
“Sarebbe però fuorviante – tiene a chiarire il Procuratore di Napoli Giovanni Melillo – parlare di nuovo di paranza dei bambini”. È un invito, se non a cambiare, a pulire le lenti con cui si è letta, negli ultimi anni, la realtà criminale di Napoli. Perché che siano i 20enni come Antonio Natale o Giuseppe Fiorillo, o come sei anni fa Emanuele Sibillo con la sua paranza dei bimbi divenuta famosa, questi giovani – tutti morti – non sono che “forze nuove che vengono reclutate”. Per rimpiazzare rapidamente quei vuoti che si creano, altrettanto rapidamente, nelle seconde e terze linee degli eserciti della camorra. Chi assoldato come manovalanza, per spaccio o pizzo; chi come security delle famiglie importanti; chi come killer. “Dobbiamo di certo guardare alla drammaticità di alcuni scontri, al disagio sociale di una condizione giovanile sempre più segnata da emarginazione e povertà educativa, ma c’è anche altro”, insiste Melillo. “Ha presente gli studi sugli storni in volo del premio Nobel Giorgio Parisi?”, chiede all’improvviso.
“Ogni storno, a una certa distanza, non interagisce con tutti gli altri”, prende a spiegare. “Ciascuno tiene sotto controllo un numero di suoi simili, 6-7 al massimo, indipendentemente da quanto lontani. Segue un singolo spezzone. Il volo, però, è collettivo. Ecco, i clan si muovono come gli storni: un insieme che, secondo regole ferree, e nonostante improvvisi cambi di direzione, si sposta come un’unica nuvola nera sulla città”. La nuvola del controllo mafioso che la camorra qui opera su ogni affare. “Lo scontro in alcuni quartieri è solo una particella di un mondo che è nostro dovere comprendere a fondo”. Quasi a dire che magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, persino i politici, tutti saremmo – non senza una certa ipocrisia – più “tranquilli” nell’occuparci solo della triste fine dei “bambini” morti ammazzati, di quei giovani che Pasolini chiamava “i destinati a morte”. Molto meno della camorra che è dentro la politica, l’economia, la vita pubblica. Perché i clan trafficano in droga e armi, ma sono più interessati alle gare d’appalto per i servizi, i lavori pubblici, le grandi infrastrutture. Lo scriveva già nel 1993 la Commissione antimafia. Trent’anni dopo, “la violenza si è trasformata in forza economica”, spiega Melillo. “Oggi i principali cartelli camorristici coincidono con ramificate costellazioni di impresa che seguono le regole del capitalismo. Ci sono contratti da rispettare, grandi mezzi finanziari, capiclan-imprenditori capaci di buttare fuori i concorrenti. Gli eventi traumatici esistono, ma si taglia un pezzo, senza che il resto venga meno”.
E così quella che a un primo sguardo sembra la magmatica geografia criminale che affastella rioni e quartieri di Napoli, ognuno con la propria famiglia, in realtà – ed è questa la novità – è un unico grande cartello che va sotto il nome, oggi come quando si formò quarant’anni fa, di “Alleanza di Secondigliano”. O, più semplicemente, come si chiamano loro da sempre, “il sistema”. E il sistema – esclusi quei pochi quartieri in cui sono rimasti a comandare i Mazzarella, assieme ai loro sparuti alleati – “il sistema siamo tutti quanti”, come si legge nelle carte dell’ultima maxi operazione di Polizia e Dda di Napoli. Una confederazione di famiglie mafiose – sopra tutte i Licciardi di Secondigliano, i Contini e i Bosti dei quartieri Vasto e Arenella, e i Mallardo di Giugliano – che, per usare l’espressione dello storico boss Carmine Alfieri, oggi collaboratore di giustizia, sono ancora “una cosa sola”. Egemone nel controllo della città, e provincia, grazie ai “numerosissimi affiliati, suddivisi in plurime articolazioni territoriali”.
E allora, se percorriamo in senso orario la baia di Napoli, attraversando i casermoni di edilizia popolare della periferia, gli assi viari retti che tagliano e si sovrappongono ai vecchi borghi un tempo campagna, se arriviamo al centro, al ventre molle, con le sue case meravigliose piene di luce e con quelle sempre in ombra, tutto si tiene. E non solo per il collante della droga. Poi, certo, ci sono gli “eventi traumatici”. E forse “il mondo è meglio non vederlo, che vederlo”, scriveva Anna Maria Ortese. Perché se la lettura del procuratore Melillo si avvicina al vero, non c’è speranza. Non c’è repressione, risanamento urbanistico, politica di protezione sociale o di contrasto all’evasione scolastica, non c’è sindaco che possa salvare Napoli.
Antonio Natale, il 22enne il cui corpo è stato ritrovato tra terra e monnezza una settimana fa, prima della pandemia faceva il pizzaiolo in Germania. Poi il Covid l’ha costretto a tornare a casa, al Parco Verde. “Aveva iniziato a frequentare queste persone e a spendere molti soldi per l’abbigliamento”, ha raccontato la sorella (la sera in cui è sparito, Antonio era andato da Gucci). “Mia mamma mesi fa lo voleva denunciare… Io volevo mettergli in tasca 20-30 pezzi di droga e farlo arrestare. Era meglio in carcere che fuori…”. La piazza di spaccio aperta h24; i soldi tanti, facili e subito; le armi. Ora Anna, la madre, sorretta dal consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, ha deciso di denunciare tutti. Fuori dalla Procura, qualche giorno fa, ha lanciato il suo anatema: “Vui, maledetti. Dicevate ‘Ad Antonio vulimme ben’. ‘Vogliamo sua mamma’. Song qua! E nun me ferm. Ci sapimm e ci conoscimm. Merde”. “Ci sappiamo e ci conosciamo”.
Ma tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi.