I nodi vengono al pettine tutti insieme. Chi, da Mattarella in giù, s’illudeva di mettere la camicia di forza alla politica – che è conflitto, dialettica, scontro di idee, di valori e di principi – con “un governo di alto profilo che non si identifichi con alcuna formula politica” formato da “tutte le forze politiche presenti in Parlamento”, deve riconoscere che era un ossimoro. Prima o poi la politica si libera e si riprende il suo posto. È quanto sta accadendo ora che si scende dai massimi sistemi e dalle massime urgenze (i vaccini e il Pnrr, peraltro già pronti a gennaio senza bisogno di salvatori della patria) e si toccano i legittimi interessi dei cittadini-elettori. Draghi e il suo circoletto di tecnici, che di elettori non ne hanno, possono infischiarsene. Ma i partiti, che molto presto dagli elettori dovranno tornare, no. I populisti dell’élite, molto più qualunquisti e antipolitici di quelli propriamente detti, sognavano che l’assembramento cancellasse le differenze di idee di partiti ed elettori, degradandole sui loro giornaloni a “sabotaggi” e “bandierine”. Ora quell’incubo sta naufragando contro gli scogli della legge Zan, della riforma delle pensioni e presto del dl Concorrenza. Ovvio, visto che gli “alleati” la pensano all’opposto su tutto (a proposito: Renzi d’Arabia è perfetto per Letta). Era già chiaro con la schiforma Cartabia, ma siccome a opporsi era Conte si era preferito ignorare ciò che tutti sanno: i governi, per governare, devono reggersi su un minimo di unità d’intenti. Invece il mastice di questo è il ricatto quirinalesco fondato su due paure: quella dei parlamentari di essere sciolti e perdere il posto; e quella dell’establishment di veder rivincere per la terza volta in 10 anni i “populisti” (dopo M5S e Lega, la Meloni).
Noi ci eravamo permessi di scriverlo fin da subito, ma fummo zittiti come “vedovi di Conte” e nemici “rosiconi” di Draghi. Invece, proprio per la sua figura di altissimo livello, pensavamo che meritasse di più e facesse meglio a evitare d’imbarcarsi in questa disavventura, preservandosi per il Colle. Ciò che ora accade a lui era già capitato ai “migliori” di Monti nel 2011-’12, sul finale della penultima legislatura: i primi mesi di luna di miele, poi gli smarcamenti dei partiti in vista delle urne, infine la resa dei conti. Con una differenza. Allora in fondo al rettilineo, non c’era il Quirinale, infatti Monti si fece un partito e finì come finì. Ora lo sbocco più naturale per Draghi è il Colle e il Vietnam prossimo venturo lo spinge a fuggire verso quel traguardo. Che rimane possibile, ma molto più arduo e incerto di un anno fa. Il terrore generale delle urne, che finora ha cementato il suo governo, potrebbe ritorcerglisi contro. E costargli non solo il Quirinale, ma pure Palazzo Chigi.