Enrico è stato un volontario di questo nostro mestiere. Un volontario delle libertà. Mi spiego. Un buon direttore sa distinguere tra giornalisti questionisti e giornalisti volontari. Nella prima categoria mi ci riconosco. Soprattutto quando si trattava di partire per un reportage scomodo (quelli comodi, in genere, non funzionano) ero lì a soppesare, a questionare, col freno tirato, fino a quando un urlaccio dei miei capi mi spediva al fronte. Poi ci sono quelli che agiscono sull’impulso, sulla volontà di fare, di esserci. A Enrico non gli ho mai sentito dire no, non lo faccio.
Lo conobbi una mattina del 2001, in via Tomacelli, nelle stanze disastrate della gloriosa Unità che tentava di riprendere le pubblicazioni interrotte dal tracollo finanziario, grazie alla generosità della compagine guidata da Alessandro Dalai. Sotto la direzione di Furio Colombo si cercava di rimettere in piedi una redazione, sia pure ristretta all’osso. Ma i no erano tanti, dai troppi che si sentivano traditi dal tracollo di un progetto politico e ideale, che non si fidavano più e preferivano andare a lavorare altrove. Qualcuno disse: “Prendete Fierro, come inviato è un fuoriclasse, cercate di convincerlo”. Non ci volle molto, questione di simpatia. È un mestiere fatto di chimica umana più che di curriculum. La sua storia professionale era già straordinaria, ma il suo biglietto da vista era il sorriso, quel sorriso da eterno ragazzo, curioso e divertito. Ci propose sul momento tre o quattro inchieste, tutte promettenti, sfiziose, ne avevamo bisogno come il pane. I giornali vivono di passione, intelligenza, scrittura, talento. E anche di quel particolare calore che scaturisce dal divertimento delle chiacchiere in libertà che spesso si trasformano negli articoli più vivaci e brillanti. I lettori se ne accorgono, e apprezzano.
Con Enrico era così. Entrava, ciao direttò, si accomodava, divagava, una sigaretta, due risate, e già la vedevo in pagina quella storia appena accennata su qualche malaffare meridionale: forza Enrì che abbiamo già il titolo. Andate a rileggere i suoi pezzi sul G8 di Genova: giornalismo da prima linea, scritti con la testa e con il cuore. Ma ci voleva soprattutto del fegato per affrontare quella macelleria messicana tollerata, e forse qualcosa di più, dal tetro regime berlusconiano. Qualche anno prima era scoppiata l’emergenza rifiuti a Napoli: per l’Unità era una grossa grana. Presidente della Regione Campania e commissario ai rifiuti era Antonio Bassolino, il “compagno” Bassolino, sì un mito della sinistra ma l’Unità non poteva fare finta di niente. Direttò vado io. Andate a rileggere quel documento duro, crudo, affilato, senza sconti perché Bassolino avrà avuto le sue ragioni ma le strade colme di rifiuti e la città disperata non sentivano ragione alcuna.
Quando fondammo il Fatto non ricordo neppure di averlo chiamato, me lo ritrovai una mattina nelle due camere e cucina (ci ridevamo su) di via Orazio. Il ragazzo di Avellino sorrideva. Con l’aria beffarda di chi l’ha combinata grossa, ancora una volta. Come molti aveva lasciato un porto sicuro per unirsi a noi bastardi senza gloria in una missione insensata. Dove ritrovava la giovane pattuglia dell’Unità con Marco Travaglio e, pronto ad abbracciarlo, il grande Nuccio Ciconte. Direttò non ti liberi di me, ed era già altrove, inviato davvero speciale in qualche luogo dell’anima dove l’umanità soffriva e la giustizia pure. Per restituire un senso alle cose, al nostro lavoro. Le 111 bare, quattro bianche, degli immigrati nell’hangar di Lampedusa nel 2013, vergogna universale dell’indifferenza e dell’intolleranza. La rivolta di Rosarno contro il razzismo nel 2010. Sulle cosche – la camorra che infestava sue parti, la ’ndrangheta, la mafia albanese – ha scritto cose tremende, definitive. Però non girava con la scorta. E poi la tormentata storia di Riace e del sindaco dell’accoglienza, Domenico Lucano, a cui ha dedicato lo spettacolo teatrale Riace social blues. Come tutti i passionali aveva le sue giornate storte. Le impuntature come i cavalli di razza. Solo la dolce fermezza di Maddalena Oliva ci consentì di mandare in stampa il primo numero dell’inserto speciale Sherlock, con l’inchiesta sulle bombe della Seconda guerra mondiale sepolte vicino agli scavi di Pompei. Ripeteva non c’è pezzo (frase che agghiaccia ogni direttore). Poi lui e Ferruccio Sansa si misero di buzzo buono e ne uscì un reportage straordinario. Da capa tosta volle comunque l’ultima parola: “Una telefonata dal giornale non ti allunga la vita ma ti precipita nel gorgo del ‘facciamo un’inchiesta’”.
Poi però ammise: “Siamo soddisfatti. Ci siamo divertiti, abbiamo litigato, ci siamo incazzati, ma alla fine il nostro lavoro è piaciuto. Piccolo personale insegnamento (ovviamente rivolto a me stesso). Le idee sono pericolosissime perché ti smuovono dalla pigrizia, ma senza idee i giornali crepano. Il lavoro di squadra (dove il “chi firma?” viene dopo) in un giornale è essenziale. Divertirsi lavorando è indispensabile”.
Volontario, dicevamo, delle libertà. Un intellettuale che metteva l’intelletto al servizio delle battaglie civili del suo amato Sud: saggi, narrativa, lavori teatrali. Testi raffinati e scritti con le scarpe consumate e sporche di fango. Aveva solo 69 anni. Lascia la compagna Frances, l’ex moglie Carmen e i figli Rossella, Martina, Raffaella, Livia e James. Ci lascia il ragazzo, ci lascia il suo sorriso. Ciao Enrì, ci siamo divertiti e sono sicuro che nel paradiso dei giornalisti proporrai subito tre o quattro inchieste. Tutte promettenti.