Per questa rubrica il diritto di critica è sacro. Per questo non ci siamo adombrati quando ieri abbiamo sentito Carlo Calenda definire “barbarie” la pubblicazione, da parte nostra e di altre testate, del contenuto di alcuni atti, regolarmente depositati, su Matteo Renzi e la fondazione Open.
Calenda sulla libertà di stampa ha un’opinione che non condividiamo. Ma lui, così come la sottosegretaria Irene Tinagli (Pd) e il numero due di Fratelli d’Italia, Guido Crosetto, portatori di punti di vista analoghi al suo, hanno tutto il diritto di esprimerla. Allo stesso tempo, però, Calenda ha un dovere. Un dovere che è comune a tutti coloro i quali ci governano o ambiscono a farlo. Non dire il falso e soprattutto conoscere le leggi dello Stato. Perché, se si affermano cose non vere e s’ignorano le regole che nelle democrazie liberali regolano i rapporti tra eletti ed elettori, si dimostra di essere inadeguati a garantire i diritti dei cittadini. Per questo ci ha fatto sobbalzare sulla sedia ascoltare Calenda, laureato in Giurisprudenza, mentre sosteneva che “quello che sta succedendo ogni giorno sui giornali è illegale” e aggiungeva addirittura che la cronaca giudiziaria sull’indagine su Open dimostra come “stiamo demolendo lo Stato di diritto”.
In attesa di capire come Calenda si sia laureato con 107 alla Sapienza, siamo quindi felici di rammentargli una semplice nozione. Cosa si può e non si può pubblicare lo stabilisce l’articolo 114 del Codice di procedura penale che al comma 7 recita: “È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto”. Che significa? Vuol dire che una volta depositate, il giornalista, se non si è ancora a processo, ha il diritto di spiegare cosa c’è nelle carte. Non le può riprodurre integralmente (cosa che nessuno ha fatto), ma può raccontarle.
In democrazia è importante che ciò avvenga. Almeno per due ragioni. La prima è garantire il controllo dell’opinione pubblica sull’attività della magistratura. E Calenda dovrebbe saperlo visto che lui stesso ieri ha testualmente affermato: “Siamo di fronte a un’inchiesta che, per il momento, da quello che vediamo sui giornali è totalmente nulla”. Una presa di posizione secondo noi criticabile, ma che sarebbe stata impossibile se tutto fosse stato segreto. La seconda ragione è legata al diritto-dovere di cronaca. I cittadini, se una notizia è rilevante, devono poterla conoscere. Non importa se non riguarda un reato. È importante invece che i fatti e le condotte riportate abbiano un interesse pubblico. Ed è impossibile negare che l’elenco dei finanziatori di Renzi lo abbia. Non solo perché proprio Renzi, in passato, aveva consigliato a tutti di diffidare da chi con la politica era diventato ricco, ma anche perché il primo frutto di questa vicenda è stata l’apertura di un dibattito politico per varare una norma che, come accade all’estero, vieti ai parlamentari di accettare consulenze e interventi a pagamento.
Invocare la privacy non ha senso. La Corte europea dei diritti dell’uomo e il Garante hanno più volte affermato che la privacy del personaggio pubblico è attenuata rispetto a quella dei governati proprio in funzione del potere di controllo degli elettori sugli eletti. Certo, comprendiamo che a un parlamentare la cosa possa non fare piacere. Ma queste in democrazia sono le regole del gioco. Sono i principi a cui ci atteniamo convinti che, quando si racconta il potere, la miglior definizione del nostro mestiere sia quella data da Horacio Verbisky: “Giornalismo significa diffondere qualcosa che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto è propaganda”.
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