I dossier, il possibile utilizzo di un detective, i software israeliani per influenzare la campagna per il referendum e, poi, per distruggere gli avversari politici e i giornalisti scomodi. Nei giorni scorsi il Fatto ha raccontato il funzionamento della “Bestia” di Renzi. Mancava il caso di studio, la testimonianza plastica che traducesse in fatti le strategie del Giglio “unofficial” sui media. Eccolo.
Mercoledì 16 novembre, La Stampa in prima pagina: “Cyber propaganda M5S, la procura indaga sull’account chiave. Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione”. L’autore è Jacopo Iacoboni, firma del giornale allora diretto da Maurizio Molinari. È la storia della fantomatica Beatrice Di Maio, presunta adepta 5 Stelle che vergava tweet diffamatori contro il governo Pd di Renzi e i suoi esponenti. Fra questi Luca Lotti, ad aprile 2016 definito mafioso. L’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio denuncia, i parlamentari del Pd firmano interrogazioni contro la “macchina del fango M5s” e gli “hacker filo russi dei grillini”. Polemica a livelli massimi. Dopo una settimana la spy story diventa farsa: si scopre che Beatrice Di Maio era Tommasa Giovannoni, la moglie di Renato Brunetta, che nel 2018 è stata condannata a 1500 euro di multa per quel tweet. Altro che hacker di Putin, quindi. Ciò che non è mai tornato in questa storia era il link (e la tempistica) tra denuncia e pezzo della Stampa. Gli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open hanno chiuso il cerchio. La montatura mediatica aveva un mandante: la Bestia di Matteo Renzi. Emblematica una chat tra Alberto Bianchi (presidente di Open) e Fabio Pammolli, docente del Politecnico di Milano, ex consulente del governo e ad aprile 2021 messo dal ministro Giovannini a capo di una commissione di studio sui trasporti. Pammolli è una figura di spicco della Bestia viola ed è anche collaboratore de La Stampa. Martedì 8 novembre 2016 scrive a Bianchi, chiede gli estremi di una denuncia che Lotti presenterà dopo una settimana esatta. E spiega: “Qui tutto nasce dalle interazioni di m con Iacoboni. Va detto che Iacoboni è su una pista molto molto rilevante per mettere a nudo alcune caratteristiche della rete”. La pista è Beatrice Di Maio, quel “m” non si sa: nelle carte dell’inchiesta è la consonante con cui il Giglio Magico chiama Matteo Renzi. Pammolli ha fretta e la mattina del 14 novembre scrive: “Mercoledì Jacopo vuole uscire e domani aspetta da me estremi”. Nel pomeriggio il docente è in pressing: “Da Jacopo: Domani alle 11 c’è la riunione. Dici che arriva questa denuncia e faccio partire la macchina e Maurizio per pubblicare Beatrice?”. Bianchi assicura: “Entro domani la depositiamo di certo”. È di parola: il 15 novembre la denuncia è depositata, l’articolo può uscire. Il giorno dopo i due si scambiano il link dell’articolo di Jacoboni e decidono chi deve inviarlo a Dagospia. Soddisfatti? No: “Ma hanno messo troppo in evidenza la denuncia, su cartaceo titolo meno efficace perche Molinari era in Israele”, scrive Pammolli. Il 24 novembre il colpo di scena. Bianchi, incredulo: “Beatrice di Maio moglie Brunetta??”. Pammolli: “A noi risulta che quel IP fosse Casaleggio”. Il 25 novembre i due commentano un post di Davide Vecchi sul sito del Fatto. Il titolo è emblematico: “È se la cyber propaganda fosse a palazzo Chigi?”. Per Bianchi e Pammolli è “fanghiglia”. Non era così. Oggi quella vicenda è chiara: era un graffio della “Bestia” renziana, peraltro rivelatosi piuttosto maldestro. Due giorni fa il Fatto ha contattato Iacoboni per capire perché il suo nome era nel piano d’attacco antigrillino inviato da Rondolino a Renzi. Il giornalista ha assicurato che né Rondolino né personaggi a lui vicini sono mai stati sue fonti. A La Verità, tuttavia, ha raccontato di aver avuto rapporti lavorativi con Pammolli. E quando il Fatto gli ha chiesto della vicenda di Beatrice Di Maio e di eventuali collegamenti con la “Bestia” ha assicurato: “Avevo diverse fonti per quella storia: ho fatto verificare in maniera indipendente a un paio di professori alcune analisi sul network in questione”. Docenti collegati al giro di Renzi? “No. Non ho avuto contatti con queste persone”.
Gli obiettivi della “Bestia” erano precisi. Chiusa l’esperienza a Palazzo Chigi il 12 dicembre 2016, c’era l’esigenza di rinnovare la strategia social di Renzi. Dalle carte depositate a Firenze emerge che appena due giorni dopo, il 14 dicembre, il giornalista Alessio Di Giorgi (estraneo all’inchiesta) inviava una e-mail a Marco Carrai con allegata un powerpoint dal titolo “Strategia Social 2017”, nel quale, fra le “ipotesi di lavoro” c’era la proposta di creare canali in rete divisi in 6 categorie, tra cui “canali ad hoc ‘contro’: contro i 5 stelle, Salvini, contro la sinistra-sinistra”. Nelle slide si proponeva anche di dotarsi della app americana Ucampaign, nota per aver fatto le fortune politiche di Donald Trump: “Già pronta testata e brandizzabile (…) Svantaggi: è quella utilizzata dai repubblicani statunitensi”. Lo stesso giorno giunge a Renzi anche un e-mail di Pammolli (estraneo all’inchiesta), che propone la “Trasformazione della Pagina del Comitato ‘Basta un Sì nella Pagina della Fabbrica delle Idee” con una “task force collegata”.
I suggerimenti vengono sviluppati. In una bozza si ipotizzano dei target social suddivisi in tre categorie: “brand”, “competitor” e “campaign/eco system”. Fra i “competitor”, troviamo politici di vari partiti (Calenda, Meloni, Salvini, Berlusconi, D’Alema), molti pentastellati (Di Battista, Raggi, Grillo, Di Maio) e un solo giornalista, il direttore del Fatto Marco Travaglio. Fra i “brand” da spingere, invece, al primo posto c’e’ Matteo Renzi, al secondo la moglie Agnese Renzi. A seguire Gentiloni, Franceschini, Boschi, Del Rio, Minniti e molti altri, tutti estranei all’inchiesta. La proposta segue di un mese l’email dell’ex dalemiano Fabrizio Rondolino (non indagato) che proponeva a Renzi un “character assassination” per “distruggere la reputazione e l’immagine pubblica” di politici del M5s e di “Travaglio e Scanzi”.
Dalle indagini emerge anche come la “Bestia” si nutriva da Palazzo Chigi. Dove dopo le dimissioni di Renzi da premier, parte del suo staff ha continuato gestire ai dati dei cittadini. Sentita dalla Finanza, Elena Ulivieri (estranea all’inchiesta) ha raccontato il suo ruolo nella “task force impiegata per la corrispondenza (…) email del Presidente del Consiglio (…) con i cittadini”, e la gestione della “casella matteo@governo.it”. Dimessosi Renzi e arrivato Gentiloni, secondo l’informatica, i dati non andarono perduti. “In quel periodo – spiega – partecipavo a un progetto su una sorta di intelligenza artificiale (…) Il titolare (…) era una infrastruttura, ovvero la So Big Data, alla quale, con apposito Nda (non disclosure agreement), sono stati donati i dati della casella di posta elettronica matteo@governo.it”.