La fondazione Open doveva chiudere prima dell’entrata in vigore della legge Spazzacorrotti. Non lo dice un testimone dell’accusa e neanche un avversario politico di Matteo Renzi. A scriverlo è un esponente di punta del Giglio Magico: l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della cassaforte che ha accompagnato l’ascesa politica dell’ex presidente del Consiglio. Lo fa più volte in alcune email inviate a due volti di primo piano del renzismo: Maria Elena Boschi e Luca Lotti, entrambi consiglieri della fondazione al centro dell’inchiesta della procura di Firenze.
Nata nel 2012 col nome di Big Bang, Open viene posta in liquidazione il 29 giugno 2018, poche settimane dopo la nascita del governo gialloverde. Una delle ultime voci in uscita è rappresentata dai 134.900 euro spesi per il volo che ha condotto Renzi a Washington, alla cerimonia in memoria di Bob Kennedy. Poi, nel gennaio del 2019, Bianchi accelera sulla chiusura della liquidazione. Ma c’è un problema: un’imprecisata somma di denaro rimasta in cassa al Comitato per il Sì al referendum costituzionale del 2016. L’avvocato scrive più volte a Boschi e Lotti, proponendo di girare quei soldi alla fondazione, che però è già in fase di liquidazione da quasi sei mesi.
La corrispondenza, contenuta nei dispositivi informatici di Bianchi e sequestrata dagli inquirenti, va avanti per qualche giorno. Ma l’avvocato ha fretta. Il 20 gennaio scrive ai due ex ministri: “Mari, Luca, ho URGENZA (in maiuscolo nel testo originale, ndr) della vs decisione sull’argomento. Se decidiamo che i fondi del Comitato per il Sì vanno a Open, il materiale trasferimento deve essere fatto entro giovedì 25 gennaio. Altrimenti i fondi andranno altrove, dove deciderete. La Fondazione deve essere chiusa in ogni modo entro il 31 gennaio, altrimenti entriamo nell’orbita di applicazione della l. 3/2019, con le complesse conseguenze che ne seguirebbero”.
La legge 3 del 2019 è la Spazzacorrotti ed è entrata in vigore l’ultimo giorno di gennaio dello stesso anno: considerata una delle norme bandiera dei 5Stelle, è stata approvata in via definitiva alla Camera il 18 dicembre 2018, tra le proteste di Forza Italia (che non partecipa alla seduta) e i voti contrari del Pd, di cui all’epoca fanno ancora parte i renziani. Tra le novità contenute nella norma c’è anche l’equiparazione ai partiti di tutte quelle fondazioni che hanno all’interno dei propri organi direttivi esponenti politici: basta essere stati parlamentari o aver ricoperto incarichi di governo nei dieci anni precedenti. È proprio il caso di Open, visto che nel consiglio siedono Lotti e Boschi, ex ministri e deputati in carica. La questione delle fondazioni che si muovono come i partiti è un passaggio cruciale dell’inchiesta di Firenze: gli inquirenti, infatti, vogliono dimostrare che Open agiva come l’articolazione della corrente renziana dentro al Pd, già prima della Spazzacorrotti. Ecco perché agli atti ci sono anche le mail di Bianchi, che parla di “complesse conseguenze” legate all’entrata in vigore della legge. Il 12 febbraio del 2019, l’avvocato scrive di nuovo a Lotti e Boschi, inviando tutte le carte relative alla chiusura dell’operazione liquidatoria. E i soldi rimasti sul conto del Comitato per il referendum? “In considerazione della necessità di chiudere al 30 gennaio, ossia prima dell’entrata in vigore della legge 3/2019, ho rinunciato all’operazione di trasferimento a Open dell’eccedenza del Comitato per il Sì che, tra una storia e un’altra, avrebbe portato via ulteriore tempo”. Insomma, pur di chiudere prima possibile, Bianchi rinuncia a quel passaggio di soldi. E dire che la fondazione ne avrebbe bisogno, visto che – come documentato dalla Guardia di finanza – chiude il bilancio finale di liquidazione con una perdita di 288.174 mila euro. Denaro che Open doveva al suo presidente, cioè allo stesso Bianchi. Che però non solo rinuncia ufficialmente a incassare il credito, ma dichiara di accollarsi ulteriori debiti che dovessero emergere dopo la chiusura della fondazione.