COP26 raccontata da chi c’era
Sono arrivato a Glasgow venerdì 5 novembre in treno. Il primo contatto con la città è stato il grande dispiegamento di polizia per tutte le strade del centro, limitate o chiuse al traffico per le manifestazioni di quei giorni (venerdì 40.000 persone e sabato circa 150.000). Sabato ho partecipato anche io al corteo, il più grande che abbia mai visto in vita mia, con persone da tutto il mondo, di ogni colore della pelle o lingua parlata. Ognuna di esse con la propria motivazione per essere lì. Nessun episodio di violenza o di tensione lungo il percorso, lunghissimo, per le vie del centro. Certo, la pioggia torrenziale è stata una compagna particolarmente scomoda, ma non ha scoraggiato noi partecipanti, anzi, ha dato alla marcia un sapore più avventuroso, quasi eroico.
Ho partecipato alla conferenza in qualità di “osservatore della società civile”. In quanto tale, ho avuto accesso alla “zona blu”, la parte più interna in cui ogni giorno passavano i delegati di quasi 200 tra Stati, organizzazioni internazionali e giornalisti di tutto il mondo. In questo luogo quasi magico e ovattato dalla moquette, si fa fatica a ricordarsi del mondo reale all’esterno. Passando da una sala delle plenarie ad un incontro bilaterale, non ci si rende conto del tempo che passa. Ogni mattina e ogni sera, però, i delegati devono passare dai cancelli di ingresso, sopra i quali si accumulano sempre più cartelli e striscioni degli attivisti che, rimasti fuori, fanno del loro meglio per ricordare a chi è dentro l’amara realtà della crisi climatica in corso.
Ma come è andata, secondo me, COP26? Il principale obbiettivo di questa conferenza era quello di garantire un futuro vivibile alle generazioni future, cosa che non potrà verificarsi se il pianeta si scalderà sopra quella soglia. Per far sì che questo obiettivo sia raggiunto, però, serve il contributo di ogni stato, specialmente di quelli più inquinanti come Stati Uniti, Cina, India. I paesi in via di sviluppo come l’India, però, non possono riuscire a decarbonizzare la loro economia senza aiuti finanziari. Perché? L’India è un paese in cui gran parte della popolazione non ha accesso all’elettricità e ai servizi minimi che noi occidentali diamo per scontati. Milioni di cittadini indiani usano lo sterco di vacca secco per cucinare. L’India è un paese assolutamente dipendente dai combustibili fossili e sul suo territorio ha grandi riserve di carbone con cui conta di garantire una migliore qualità della vita ai propri cittadini nei prossimi anni. Se dovesse rinunciare a sfruttare le sue stesse riserve, come potrebbe sostenere i costi della transizione ad un sistema basato sull’energia pulita? La soluzione è una sola e si chiama “vil denaro”.
Chi dovrebbe darglielo? Le nazioni occidentali sfruttano e bruciano combustibili fossili da più di un secolo e così facendo hanno elevato le proprie popolazioni dalla povertà più nera e garantito loro molti servizi pubblici. Le conseguenze di tutto questo iniziano a vedersi già da qualche anno, con estati sempre più calde ed eventi estremi sempre più frequenti e distruttivi. Se anche in Italia come nel resto dei Paesi più benestanti tali eventi si iniziano a manifestare con sempre maggior violenza, nel resto del mondo intere nazioni sono periodicamente in ginocchio per alluvioni , uragani, incendi e scarsità d’acqua. I popoli di queste regioni del mondo sono i più colpiti dalla crisi climatica e sono anche i più vulnerabili rispetto ad essa. Oltre a questo, tali nazioni sono anche le meno responsabili.
La lotta alla crisi climatica è quindi una lotta per la giustizia sociale e i paesi più ricchi dovrebbero fornire a quelli più poveri un adeguato sostegno economico. Seppur tali ragioni di giustizia siano importantissime, non dobbiamo dimenticare le ragioni di sicurezza. Infatti, se abbandoneremo i Paesi più vulnerabili al loro destino, il loro collasso porterà a disastri a catena, squilibri geopolitici, guerre per le risorse e migrazioni forzate. COP26 aveva tra i suoi principali obiettivi quello di trovare tra gli Stati 100 miliardi di dollari e garantirli ogni anno a partire dal 2021 ai paesi in via di sviluppo. Fino all’ultimo si è sperato in un accordo che vedessi arrivare tali fondi, ma così non è avvenuto. Ho presenziato al momento finale di plenaria insieme ai delegati di tutti gli stati e tutti erano stanchissimi, io compreso. Sono uscito prima della chiusura ufficiale da parte del presidente di COP26 Alok Sharma, deluso da quella che secondo gli esperti avrebbe dovuto essere la conferenza per il clima più importante del secolo.
Cosa c’è in tutto questo, di positivo? La cosa più importante è la grande quantità di relazioni, connessioni e dibattiti che questa COP, enormemente mediatica e di tendenza, ha fatto scaturire nella società civile di tutto il mondo. Anche se un fallimento dal punto di vista degli accordi raggiunti, dal lato comunicativo credo sia stata una grande passo nella giusta direzione. Da giovane attivista per il clima devo ammettere di aver avuto conferma che la soluzione alla crisi climatica non verrà da luoghi come questo, ma dalle persone. Solo una società civile informata, consapevole e quindi pronta ad agire potrà legittimare ed eleggere politici all’altezza della sfida climatica, e allo stesso tempo potrà accettare le scelte radicali che dovranno essere fatte nei prossimi anni. È con questo spirito che torno alla mia normalità fatta di studio e, ancor più convintamente, attivismo. Attivismo che deve essere da oggi in poi una parola aggiunta al vocabolario di ognuno di noi cittadini, giovani e adulti. Non abbiamo bisogno di supereroi, ma di tantissime persone comuni, attive e che vogliono far parte della soluzione. Solo con questo spirito potremo farcela insieme.