Il Glasgow Climate Pact è un’altra occasione persa, in modo diabolico: manca il coraggio di cambiare! Il Glasgow Climate Pact, firmato sabato sera, afferma che per limitare il riscaldamento a 1,5 C sono necessarie riduzioni rapide, profonde e sostenute delle emissioni globali di gas serra, compresa una riduzione del 45% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 rispetto al livello del 2010 e stabilisce che nel 2022 i Paesi devono tornare al tavolo con piani più ambiziosi.
La fine dei combustibili fossili pare avvicinarsi – molto gradualmente – ma, nonostante anni di colloqui, le emissioni continuano ad aumentare e l’impatto della zootecnia rimane trascurato e fuori dai negoziati, mentre l’emergenza climatica è sempre più presente e si manifesta con numerosi eventi distruttivi al giorno.
Per ridurre le emissioni di gas climalteranti e mettere un freno al cambiamento climatico va riconosciuta in modo esplicito la necessità di ridurre il numero degli animali allevati e orientare l’intero sistema alimentare verso produzioni e consumi di cibi vegetali. Diversi Paesi stanno muovendo i primi passi verso questa transizione: nei Paesi Bassi si sta discutendo di un piano per ridurre il numero di bovini allevati, per mitigarne l’impatto sull’ambiente. Sull’altro fronte, la Danimarca è stata la prima ad annunciare, recentemente, un piano per finanziare la coltivazione di alimenti di origine vegetale, assegnando bonus agli agricoltori che coltivano vegetali per il consumo umano.
E nonostante siamo ormai in una condizione pericolosamente vicina al punto di non ritorno, con fenomeni atmosferici estremi sempre più frequenti e devastanti, ci troviamo a raccogliere un esito del vertice del tutto inadeguato alle aspettative e, soprattutto, alle esigenze e già chiediamo un esito diverso per la prossima conferenza delle parti. Continueremo a ribadirlo: la trasformazione del sistema alimentare globale è una condizione necessaria per affrontare la crisi climatica.
Ancora una volta nulla di fatto, un’altra occasione persa. Perseverare con il modello produttivo zootecnico, tra le cause conclamate dei cambiamenti climatici, è l’errore più diabolico che si possa commettere nell’estrema urgenza di arginare la crisi climatica: c’è da domandarsi se questo accade per incompetenza, per gli interessi in gioco o per negligenza… Manca il coraggio di cambiare. Eppure l’evidenza scientifica non lascia più spazio all’interpretazione: una quota molto importante di emissioni climalteranti, inclusi CO2 e metano, proviene dall’agricoltura; le stime vanno dal 16 ad oltre il 20% (arrivando quindi a rappresentare circa un quarto delle emissioni a livello globale). Di queste il 70% dipende dalla zootecnia. Escludere questo tema dal dibattito significa dire al mondo intero che si vuole mantenere lo status quo senza alcuna prospettiva sul futuro: una scelta scellerata e crudele non solo verso i miliardi di animali vittime di un sistema alimentare insostenibile, ma crudele anche per le generazioni future.
Oltre al danno poi, anche la beffa: gli allevamenti sono tra i maggiori responsabili di emissioni di gas serra a livello globale, eppure i menu destinati ai delegati e ai partecipanti alle 2 settimane di negoziati della COP26 di Glasgow, abbondavano in carne, uova e latticini (il 60% dei piatti): una evidente contraddizione nell’era dell’emergenza climatica. Con approccio quantomeno superficiale, tali cibi sono stati definiti sostenibili solo perché provenienti da allevamenti ad un massimo di 100 chilometri dalla capitale scozzese. Un menu simbolo delle contraddizioni di una conferenza che dovrebbe trovare soluzioni per affrontare il cambiamento climatico, e che però lascia di fatto fuori dal dibattito il ruolo dell’alimentazione basata su prodotti di origine animale. Ed invece proprio quest’ultimo che deve obbligatoriamente entrare nell’Agenda della COP27, che si terrà in Egitto nel novembre 2022, ed uscire dai menu.
Ma se il menu ha simbolicamente mostrato la contraddizione evidente, anche gli impegni presi dai partecipanti ai negoziati mostrano gravi lacune. Oltre 100 Paesi hanno firmato la Global Methane Pledge impegnandosi per la riduzione delle emissioni globali di metano del 30% entro il 2030: un impegno che non possiamo accogliere positivamente, dal momento che il ruolo del sistema agroalimentare appare come marginale, quando invece il 40% delle emissioni di metano a livello globale dipendono dal settore agricolo, e di queste il 32% dalla zootecnia.
I leader mondiali partecipanti ai negoziati hanno anche promesso di mettere fine alla deforestazione entro il 2030. Senza obiettivi specifici e sanzioni previste, appare però difficile, anche in questo caso, apprezzare la credibilità di queste dichiarazioni.
L’allevamento è la causa principale di deforestazione: una quota molto importante delle terre deforestate è proprio destinata al pascolo e coltivazione di mangimi per gli animali allevati, in particolar modo nei Paesi dell’America latina, come il Brasile.
Le foreste sono fondamentali per catturare CO2 e la loro distruzione rappresenta una grave minaccia climatica: senza un cambio totale di paradigma di produzione e consumo alimentare non sarà possibile salvaguardare i polmoni verdi del Pianeta, né restituire spazio agli ecosistemi ed alla biodiversità.
E nonostante siamo ormai in una condizione pericolosamente vicina al punto di non ritorno, con fenomeni atmosferici estremi sempre più frequenti e devastanti, ci troviamo a raccogliere un esito del tutto inadeguato alle aspettative e, soprattutto, alle esigenze e già chiediamo un esito diverso per la prossima conferenza delle parti. Continueremo a ribadirlo: la trasformazione del sistema alimentare globale è una condizione necessaria per affrontare la crisi climatica.