Nel testo originario della Costituzione, era previsto che nessun membro delle Camere (Camera dei deputati e Senato della Repubblica) potesse essere sottoposto a procedimento penale senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza.
A fronte dell’indignazione popolare conseguente all’uso fatto del diniego di autorizzazioni, non solo sulla base di sacrosante ragioni di tutela della libertà dell’attività parlamentare, ma anche per assicurare l’impunità per reati comuni (persino per un omicidio colposo conseguente a incidente stradale), l’art. 68 della Costituzione fu modificato con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3.
Rimase la necessità di autorizzazione per perquisizioni personali e domiciliari, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e sequestro di corrispondenza, oltre che per le ipotesi di limitazione della libertà personale. Invero, se è comprensibile la tutela della libertà personale, è incomprensibile come possano essere subordinate ad autorizzazione preventiva atti a sorpresa quali perquisizioni o intercettazioni. Infatti un dibattito nella assemblea di cui il parlamentare fa parte vanificherebbe l’utilità dell’atto. Solo uno sciocco, per esempio, saputo che si sta per perquisirlo, per esempio per trovare stupefacenti, continuerebbe a detenere ciò che gli inquirenti ricercano. Altrettanto deve dirsi per le intercettazioni: chi converserebbe sapendo che è stata autorizzata una intercettazione nei suoi confronti?
Gli atti a sorpresa non possono perciò essere compiuti, ma può capitare (e concretamente capita) che intercettando altro soggetto si acquisiscano conversazioni rilevanti in sede penale con un parlamentare. In questi casi l’autorità giudiziaria deve chiedere alla Camera di appartenenza l’autorizzazione all’utilizzo di tali conversazioni.
La Corte costituzionale è più volte intervenuta su dinieghi di autorizzazione all’utilizzo di intercettazioni.
Con sentenza n. 74 del 26.02.2013 la Corte costituzionale, in riferimento a un procedimento penale per concorso esterno in associazione mafiosa, ha annullato la deliberazione della Camera dei deputati di diniego dell’autorizzazione alla utilizzazione, da parte della magistratura procedente, di intercettazioni telefoniche coinvolgenti casualmente il parlamentare, a seguito di ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il tutto affermando che: “Non spettava alla Camera dei deputati negare, con deliberazione del 22 settembre 2010, l’autorizzazione, richiesta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, a utilizzare quarantasei intercettazioni telefoniche nei confronti di N. C., membro della Camera dei deputati all’epoca dei fatti, nell’ambito del procedimento penale nel quale il predetto parlamentare risulta imputato. Invero, premesso che ai sensi dell’art. 6, della legge n. 140 del 2003, il criterio alla stregua del quale deve essere valutata la correttezza dell’esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei membri delle Camere è costituito dalla ‘necessità’ processuale e la valutazione circa la sussistenza di tale necessità spetta all’autorità giudiziaria richiedente, mentre al Parlamento compete di verificare che la richiesta di autorizzazione sia coerente con l’impianto accusatorio, accertando che il giudice abbia indicato gli elementi sui quali la richiesta si fonda e che questa sia motivata in termini non implausibili, nella deliberazione impugnata la motivazione formulata dal GIP a giustificazione della necessità di acquisire le intercettazioni non è stata in alcun modo esaminata e il diniego espresso dalla Camera è fondato su argomenti che hanno solo una remota attinenza con il requisito della necessità e comunque non concernono la plausibilità o sufficienza della motivazione del giudice, essendo volti piuttosto a negare in modo assiomatico rilievo decisivo al valore probatorio delle comunicazioni intercettate. Conseguentemente la delibera della Camera risultando assunta sulla base di valutazioni che trascendono i limiti del sindacato previsto dall’art. 68, terzo comma Cost. e interferiscono con le attribuzioni assegnate in via esclusiva al giudice penale, deve essere annullata”.
Semplificando: la Camera di appartenenza non può sostituirsi all’autorità giudiziaria nell’esercizio dei poteri di questa.
Ciò che è avvenuto per quanto riguarda le conversazioni di Matteo Renzi finite agli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze non ha rappresentato “una utilizzazione parcellizzata e disconnessa dalla posizione dei parlamentari”, bensì una “utilizzazione che ha evidenti e inequivocabili incidenze sulla loro posizione nell’ambito del procedimento penale”.
Nella recente vicenda che riguarda le indagini sulla Fondazione Open, il 4 ottobre la Procura di Firenze ha dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza dei legali di Renzi, che qualche giorno prima avevano avanzato “formale intimazione al Procuratore aggiunto, dott. Luca Turco, di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa in base all’articolo 68 della Costituzione (sulle guarentigie dei parlamentari, ndr)” e dall’utilizzo di “conversazioni e corrispondenza casualmente captate (…) senza la previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. Ciò in quanto l’utilizzazione dei dati processuali in questione è stata operata non già nei confronti di Renzi, ma di un altro indagato che non essendo parlamentare non poteva invocare quelle garanzie riconosciute agli eletti.
Il senatore Renzi ha richiesto che l’Assemblea valutasse tale situazione e il senatore Pietro Grasso aveva segnalato come, al momento, non risultasse l’uso nei confronti del parlamentare di dati sequestrati a un terzo.
Con sentenza n. 390 del 2007 24.10.2007 la Corte costituzionale ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140, nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate. Infatti, le disposizioni impugnate sono incompatibili con il fondamentale principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, accordando al parlamentare una garanzia ulteriore rispetto alla griglia dell’art. 68 Cost., che finisce per travolgere ogni interesse contrario, poiché si elimina, a ogni effetto, dal panorama processuale una prova legittimamente formata, anche quando coinvolga terzi che solo occasionalmente hanno interloquito con il parlamentare. Così si introduce una disparità di trattamento non solo fra il parlamentare e i terzi, ma anche fra gli stessi terzi, posto che la posizione del comune cittadino, cui gli elementi desumibili dalle intercettazioni nuocciano o giovino, viene a risultare differenziata in ragione della circostanza, casuale, che il soggetto sottoposto ad intercettazione abbia avuto come interlocutore un membro del Parlamento. Quel che rende contrastante l’art. 6, commi 2, 5 e 6, non solo con il principio di eguaglianza ma anche con il parametro della razionalità intrinseca è il fatto che sia stato delineato un meccanismo integralmente e irrimediabilmente demolitorio, omettendo qualsiasi apprezzamento della posizione dei terzi, anch’essi coinvolti nelle conversazioni”.
Una pronuncia del Senato di segno contrario alle decisioni della Corte costituzionale ricorderebbe il celebre motto del Marchese del Grillo: “Io so’ io e voi non siete un c…”.