Cicloni semi tropicali, piogge record e trombe d’aria come quelle che si sono verificate nelle ultime settimane in Sicilia continuano a flagellare il nostro Paese causando danni ingenti e gravissime conseguenze per l’economia locale. Se è chiaro ormai che i combustibili fossili sono la principale causa dei cambiamenti climatici che generano questi fenomeni meteo estremi, non è chiaro come l’Italia voglia tutelare i propri territori. Per andare verso una vera transizione ecologica e mantenere l’aumento medio della temperatura globale sotto il grado e mezzo servirebbe subito un segnale: uno stop definitivo alla ricerca di idrocarburi in Italia e nessun rinnovo delle concessioni vigenti. Dal 30 settembre, invece, è scaduta la moratoria di due anni e mezzo sulle trivelle e si sono sbloccati (almeno sulla carta) numerosi procedimenti per la prospezione e ricerca di idrocarburi che minacciano circa 91mila chilometri quadrati di mare e 26mila chilometri sulla terraferma nel nostro Paese.
Il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI) presentato dal ministero della Transizione energetica non solo non è stato approvato entro la scadenza data, ma il documento sottoposto a Valutazione Ambientale Strategica (VAS) dal Mite è risultato una scatola vuota: la società civile lo ha fortemente criticato (con oltre 84 osservazioni presentate tra cui le nostre) e la stessa Commissione Tecnica VAS ha chiesto di chiarire la questione relativa ai “vincoli di esclusione” dal momento che non è affatto chiaro quali saranno le attività che potranno riprendere e quali no. Non si sa se a conclusione della VAS sia stata stesa un’altra versione della “proposta” del Piano che tenga conto delle osservazioni pervenute (il tempo era davvero poco) e se tale documento sia stato posto all’attenzione della Conferenza Stato-Regioni, competente per la parte a terra. Ciò che è certo è che oggi le trivelle rappresentano ancora una minaccia per il nostro Paese a causa della mancanza di una precisa volontà politica di mettere fine alla nostra dipendenza dalle fossili.
Per essere serio rispetto a questo obiettivo, il nuovo piano delle aree del Mite dovrebbe contenere uno stop definitivo a ogni nuova estrazione e esplorazione di idrocarburi e una data limite per lo sfruttamento dei giacimenti esistenti al 2030, come ha fatto la Francia. Invece l’Italia tentenna: alla COP26 ha aderito solo come “amica” alla BOGA – la Beyond Oil and Gas Alliance, che riunisce i Paesi che “si sono impegnati a porre fine a nuove concessioni di licenze per esplorazione e produzione di petrolio e gas come componente urgente e cruciale nell’affrontare la crisi climatica” – spendendosi nell’ennesima dichiarazione di intenti, fondamentalmente senza alcun impegno concreto.
Poco rassicurano infine le promesse di non autorizzare nuovi procedimenti fino all’approvazione del piano da parte del ministro Cingolani: solo ad aprile, in piena moratoria, il suo ministero dava valutazione positiva a nuovi progetti in Adriatico. Il ministro ha dichiarato che l’Italia è addirittura più avanti degli altri Stati della BOGA, citando “il grande piano per le rinnovabili con 70 miliardi di watt per i prossimi 9 anni, per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita” e parlando di “eliminazione dei Sussidi alle fossili (SAD)”. Per essere credibile, dovrebbe iniziare a occuparsi sul serio delle trivellazioni senza ulteriori rinvii e proteggere il nostro Paese dai cambiamenti climatici.