Il mandato di Sergio Mattarella sta per scadere: si affacciano in giornali e notiziari “totonomi” su chi potrebbe essere “il nuovo presidente”, e si scommette se – dopo 75 anni da che è nata la nostra Repubblica – avremo al Quirinale la prima donna a capo dello Stato.
Scorro velocemente i primi due articoli del Titolo II della Costituzione dedicati a questo ruolo: “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. […]” (art. 83), “Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici. […]” (art. 84). Non posso evitare di soffermarmi sulla nominazione e i riferimenti al maschile, come in tanti altri passi della Costituzione.
La mia conoscenza enciclopedica, cioè l’insieme delle informazioni in mio possesso sulla legislazione italiana, e la mia competenza metalinguistica (so che in italiano, tradizionalmente, si attribuisce al genere maschile un valore generico) mi spingono a non interpretare letteralmente ciò che è scritto: quando leggo che può essere eletto a Presidente un cittadino so che – in questo contesto – si intende che può essere eletta anche una cittadina, se risponde ai requisiti elencati. Questo passo, infatti, dialoga con gli altri articoli della Costituzione, che sostengono l’uguaglianza di diritti e l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica, sociale di tutte le persone. D’altra parte, sarebbe anacronistico pretendere una formulazione diversa, dal momento che il testo costituzionale è stato scritto tra il 1946 e il 1947, un’epoca in cui non c’era la stessa sensibilità al sessismo linguistico di oggi; fondamentale per esercitare il nostro sguardo critico sulla comunicazione in un’ottica di genere e pietra miliare di tante successive ricerche è stato il lavoro di Alma Sabatini, in particolare Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nel 1987, cioè quarant’anni dopo la redazione della Costituzione.
Se gli articoli costituzionali vanno riportati nell’alveo del loro contesto storico, non è possibile però appellarsi alla stessa giustificazione per i testi contemporanei, in cui imperversa ancora la tendenza a usare il maschile quando si indica, in modo generico, una carica, un ruolo, una professione, fingendo che quel maschile valga come neutro. Non c’è neutralità in una simile scelta, perché, in riferimento a un essere umano, il genere grammaticale maschile conduce il nostro pensiero a un corpo maschile; certo, possiamo fare delle correzioni successivamente, ma è – appunto – un aggiustamento interpretativo che interviene in un secondo momento su un’immagine già fissata. Anche se sappiamo che “il” presidente della Repubblica è una carica che può essere ricoperta da soggettività diverse da quella maschile, queste abitano l’implicito, stanno nel sottobosco delle narrazioni; per richiamarle alla mente è necessario uno sforzo di immaginazione perché le parole in sé non ce le porgono all’orizzonte del nostro sguardo. Bisogna andarle a cercare intenzionalmente. Lo sforzo aumenta quanto più ci si allontana da ciò che percepiamo come familiare: la normalità è incontrare l’espressione “il presidente della Repubblica” (uomo), più strano risuona “la Presidente della Repubblica” (donna), inaccettabile ancora “lə Presidente della Repubblica” (emby/queer; ma potrebbe essere usato in modo omnicomprensivo).
È faticoso figurarsi soggettività diverse da quella maschile in un ruolo che nella nostra storia nazionale è stato rivestito solo da uomini: non ne abbiamo mai fatto l’esperienza diretta, ci manca l’evento che funga da memoriale per il futuro. La fatica aumenta, però, ancora di più se non facciamo questa esperienza neppure a livello di narrazione, cioè di pratica immaginativa (aspetto assai rilevante come dimostrano la teoria biopoetica della narrazione e gli studi sui neuroni specchio). Se, come tuttora avviene nella maggior parte (per non dire totalità) delle comunicazioni mainstream, per un certo incarico nominiamo sempre e solo un genere, stiamo dando a quel genere un vantaggio in termini di visibilità e opportunità perché sarà percepito come normale e familiare (perciò confortante) avere, per esempio, un uomo presidente, mentre sarà considerata come un’eccezione (e dunque, almeno inconsciamente, fonte di preoccupazione) avere una donna presidente. La lingua ci permette di nominare ciò di cui abbiamo fatto esperienza in passato e che incontriamo nel nostro presente; ma ha anche il potere di illuminare il nostro futuro, ampliando il nostro immaginario con nominazioni inedite, inusuali: le parole suggeriscono realtà possibili, frame narrativi nuovi.
Perché è difficile ampliare lo spazio linguistico, dismettendo quel maschile che per convenienza (politica) si è sempre considerato neutro e che neutro non è? Perché sarebbe un cambio di paradigma: significherebbe dare piena cittadinanza a soggettività finora percepite come aliene o accessorie o ancillari; soggettività finora incluse come eccezione o forzatura rispetto a un sistema chiuso, ancora ben saldo nei suoi confini. Se anche solo la proposta di parole per indicare soggettività finora marginalizzate destano reazioni aggressive, si potrà forse prevedere rispetto verso le persone in carne e ossa, indicate da quelle parole? Si potrà forse considerare tali persone, così difficili da accogliere sul piano linguistico, figure accettabili per ruoli di responsabilità, prestigio, potere?
Si può riformulare la domanda che così frequentemente ritroviamo nelle nostre giornate in modo più esteso: “Chi sarà la nuova presidente o il nuovo presidente?” o “chi sarà lə nuovə presidente?”. Questo non ci porterà forse a interrompere la conta di questi ultimi dodici Presidenti uomini, ma sarà un prezioso contributo – questo è certo – per evolversi verso una società meno sessista, verso una società in cui il privilegio della nominazione (e la piena partecipazione alla vita politica, senza ricorrere a correttivi) non spetta solo al genere maschile.
*linguista e autrice de “La lingua che cambia”, Eris, 2021