Queste Storie italiane saranno un po’ urticanti. Ed è possibile che stia dicendo qualcosa con cui, parodiando Woody Allen, non sono del tutto d’accordo. Ma vedete, da un po’ di tempo ho – se così posso dire – un rovello in più, tra i molti che è sensato avere. Ed è quello delle scorte vistose e onnipresenti assegnate ai personaggi ritenuti “a rischio”. E della conseguente celebrazione civile di questi ultimi. Sarà perché in un caso ho potuto assistere direttamente a una sapiente autocostruzione (o alimentazione) della “situazione di rischio”, sarà perché vedo ormai tanti particolari che non mi convincono o addirittura mi deprimono, ma sono diventato un po’ diffidente. Per ragioni familiari ho respirato l’aria del rischio sin da ragazzo, e certe narrazioni o auto-narrazioni mi appaiono decisamente fuori posto. Voglio precisare: sono pensieri, quelli che vi sto offrendo, che non ho fin qui messo per iscritto perché c’è sempre il rischio (appunto…) di sbagliare valutazione, o di aprire un varco in cui possano poi gettarsi per grazia ricevuta i campioni della cultura mafiosa, con le loro pretese di resa civile e omertà intellettuale.
Solo che alla fine sono stato costretto a tornare su questo rovello e a rianalizzarne minuziosamente le cause qualche pomeriggio fa a Città del Messico. L’occasione è stata l’assegnazione del premio della fondazione Barba Varley di quest’anno a “5° Elemento”, una rete di giornalisti messicani che si occupano in particolare delle desapariciones forzadas e alla cosiddetta Brigada nacional de búsqueda composta dai molti gruppi di volontari impegnati in tutto il Paese nella ricerca dei resti dei desaparecidos. Sul palco è stata chiamata a ricevere il premio Marcela Turati, giornalista coraggiosa di cui il Fatto ha già parlato, anche in questa rubrica. Ebbene, ho studiato Marcela quand’era nel pubblico e poi sul palco. Provo per lei una ammirazione profonda, come per tutti coloro che sanno mettersi a rischio per difendere la libertà e la legalità in situazioni difficili o estreme. Basti pensare che in Messico i giornalisti uccisi sono ormai più di duecento. E che secondo le cronache la violenza dei narcos ma anche dei poteri “istituzionali” colpisce in certi contesti soprattutto le donne. Ecco, Marcela è con ogni certezza tra i cronisti più scomodi, costretta come e più di altri a una vita “deprivata” che ne sfida ogni giorno il senso di libertà fisica e la serenità psicologica. Ha davanti uno scenario di più di duecentomila morti, caduti in una guerra anarchica che dura da un ventennio, e una corruzione potente che entra in tutti i gangli della vita civile e istituzionale. Ma è senza scorta e nemmeno la chiede, perché in fondo non se ne fida. Cammina e viaggia da sola o con amici, quando entra in un ristorante nessuno se ne accorge, quando arriva in una piazza affollata nessuno si chiede cosa succeda.
Il pomeriggio di due settimane fa in cui condivideva con le sue colleghe la gioia per il meritato riconoscimento professionale, scherzava, salutava senza cipiglio e senza lamenti gli ospiti, brindava al tavolo del buffet disposto all’interno della villa, protetta in tutto da un muro di cinta e da una guardia giurata al cancello. Al momento della premiazione mentre le giornaliste della rete di “5° Elemento” facevano la ola in platea lei le invitava ridendo e con il classico gesto esortativo a far sentire insieme più forte la propria voce.
Forse i messicani sono più allegri. Forse hanno antropologicamente più familiarità con la morte, come diceva Falcone dei siciliani. Fatto sta che mi sono chiesto perché lei e altri in Messico sì e altri assai meno a rischio in Italia no. Se non vi sia qualcosa di strano, una curiosa malattia che mi scorre sotto gli occhi tutti i giorni. Oltre la mafia, si intende. Che con buona pace di molti non è finita.