Sono ricercatore universitario e ho la fortuna di frequentare intensivamente la montagna per monitorare i torrenti di alta quota. Spesso mi capita di arrivare alla fronte del ghiacciaio e, scaricando le spalle degli strumenti di lavoro per campionarne la gelida sorgente, osservo con un po’ di invidia gli alpinisti in cordata che risalgono la maestosa ed elegante distesa di mille sfumature di azzurro e bianco. Poi penso a mia figlia, a quando lei stessa alla mia età potrà salire fin quassù e guardare in alto, in un giorno di tarda estate. Molto probabilmente potrà ammirare solo una enorme massa di detriti, memoria di una gloria disciolta. Il colore sarà quello della roccia, tinteggiato di qualche macchia verde della vegetazione che sta migrando verso l’alto.
Purtroppo il ritiro dei ghiacciai è solo la testimonianza più evidente di un riscaldamento climatico accelerato dalle attività umane. Gli ambienti di alta quota si stanno trasformando sotto i nostri occhi disattenti al dettaglio, troppo immersi forse nella maestosità del panorama, teatro di rappresentazione del nostro ego tramite il gesto atletico, o sfondo di piatti prelibati intrappolati in una foto smartphone da un rifugio a cinque stelle.
Il paesaggio che si sta sciogliendo e riscaldando è soprattutto natura, habitat, luogo di vita di numerose specie di microorganismi, piante, invertebrati e vertebrati con pelo, piume e squame. Sono anche loro parte integrante delle montagne, dove la grande varietà di ambienti, microclimi e isolamento promuovono una grande diversità biologica, inestimabile patrimonio planetario. Una parte di questa biodiversità è a rischio. La risalita della vegetazione, lo sfasamento dei cicli stagionali e i cambiamenti del clima stanno spingendo verso quote elevate le specie più sensibili, quelle adattate al freddo. Una risalita a vicolo cieco che le sta conducendo verso le trappole di vetta, in cima ai monti, da dove più in su non si può migrare. Con il rischio di estinguersi. Numerose sono le specie che corrono questo pericolo, non solo terrestri ma anche acquatiche. Infatti, anche le fresche acque montane ospitano organismi adattati al freddo, e in particolare i torbidi e impetuosi torrenti di fusione glaciale sono dimora delle specie più rare, che si ritrovano solo entro poche centinaia di metri dalla fronte del ghiacciaio! È facile immaginarsi il loro destino con la scomparsa di queste grandi riserve di acqua dolce, essenziali anche per le nostre economie di fondovalle.
Siamo abituati a concepire tutto questo come un fatto ineluttabile, dettato da dinamiche globali per le quali associazioni, enti locali, parchi naturali, possono fare ben poco se non dare un microscopico contributo alla promozione di stili di vita meno climalteranti. Nonostante siano stati fatti tentativi, non è rivestendo i ghiacciai di teloni (la cui degradazione inquina il territorio e le acque) che si risolvono i problemi. Le emissioni, gli accordi sul clima, le città e l’agricoltura, tutto così distante… cosa si può fare a duemila metri, dove più che produrre le emissioni serra se ne subiscono sproporzionatamente gli effetti?
Deboli segnali di speranza per tamponare, seppure in maniera assai parziale e localizzata, la perdita di specie in alta quota, sembrerebbero emergere dai cosiddetti rifugi climatici, ovvero luoghi dove le specie possono continuare a trovare habitat favorevole in un clima che cambia. In montagna i ghiacciai non sono le uniche forme del paesaggio, che ospita anche una grande varietà di interessanti morfologie costituite da frammenti di roccia e ghiaccio. Hanno nomi poco attraenti (ghiacciai rocciosi, talus periglaciali, protalus rampart, ghiacciai coperti, morene con ghiaccio segregato, etc.) e sono spesso legate alla presenza di permafrost (terreno permanentemente sottozero). Queste gelide morfologie rocciose (forse l’inglese “cold rocky landforms”, come sono state recentemente chiamate, suona un po’ più elegante?), che si trovano anche nelle valli senza ghiacciai, mantengono le temperature della loro superficie e delle acque che alimentano molto più basse rispetto alle zone circostanti. Questo grazie alla presenza di ghiaccio, invisibile dall’esterno perché protetto da una spessa coltre di detrito roccioso, e di complessi meccanismi di ventilazione interna. Su scala globale, numerosi studiosi di piante e animali, acquatiche e terrestri, stanno indagando da decenni il ruolo di queste strutture come potenziali rifugi climatici nelle valli riscaldate. Inoltre, molte di queste morfologie, in generale quelle con meno ghiaccio, si comportano come spugne che trattengono l’acqua di pioggia e scioglimento nivale per restituirla lentamente anche nei periodi secchi. Per questo motivo rappresentano importanti riserve idriche capaci di contrastare la tendenza sempre più marcata dei corsi d’acqua alpini al prosciugamento.
Ben lungi dall’essere la risposta ai cambiamenti climatici, questi gelidi rifugi potrebbero rappresentare tuttavia la speranza più immediata di sopravvivenza per alcune specie terrestri e acquatiche sulle montagne di tutto il mondo. La protezione attiva di questi santuari è quindi di primaria importanza, ed è un piccolo modo per contrastare a livello locale le dinamiche climatiche globali. Questa sì, è un’eredità che mi piacerebbe lasciare a mia figlia quando guarderà verso il fantasma del ghiacciaio e potrà pensare che là da qualche parte, nascosta tra i frammenti di roccia, potrebbe esserci un prezioso residuo della vita che fu. Magari valorizzato da pannelli divulgativi, protetto dall’espansionismo turistico e dalla terracquea voracità antropica.
Forse questo è il senso di conservare le briciole di un sistema che si sta sgretolando: dalle briciole possono nascere nuovi paradigmi. Un nuovo modo di vivere l’alta quota, più consapevole e rispettoso, basato sull’orgogliosa conservazione di ciò che è possibile. Ma che comporta anche l’assunzione di responsabilità da parte degli enti locali e dei parchi naturali che purtroppo spesso sacrificano la propria missione sugli altari degli interessi localistici: espansioni edilizie, abitazioni e alberghi, rifugi-grattacielo, viziato turismo incivile e motorizzato, usi e abusi di acqua, aria e neve. Attività che rischiano di moltiplicare localmente gli effetti dei cambiamenti climatici. Ed è anche su questi elementi moltiplicativi che si può intervenire, per sradicare i processi sociali ed economici che sono tipici della miopia climatica globale.