Au Loong-Yu, 65 anni, è un autore marxista di una lucidità rara sul Partito comunista cinese (Pcc). Al momento vive a Londra, mentre la sua città, Hong Kong, subisce una vasta repressione. Il suo ultimo libro Hong Kong in Revolt, uscito nel 2020, analizza il movimento sociale nato nel 2019 nell’ex colonia britannica. Nel suo testo sosteneva che la regione semi-autonoma avrebbe avuto una tregua di cinque a dieci anni prima di essere ridotta in uno stato di asservimento totale alla Repubblica popolare cinese. Invece è bastato un solo anno. La pena è stata doppia: nel 2020 è stata adottata la legge sulla Sicurezza nazionale ed è scoppiata l’epidemia di Covid-19. Attivista per i diritti dei lavoratori di Hong Kong e della Cina continentale, internazionalista contrario ad ogni forma di nazionalismo, è stato tra i fondatori dei siti China Labour Net e di Globalization Monitor, basati a Hong Kong.
Cosa sta succedendo a Hong Kong?
È in corso una grande epurazione. 153 persone sono state arrestate da quando è entrata in vigore la legge sulla sicurezza nazionale. Tra gennaio 2021 e fine settembre, 49 organizzazioni, tra Ong, sindacati e movimenti studenteschi, hanno preferito sciogliersi per timore delle repressioni. Lo scopo dei questa epurazione è di controllare le menti e le anime delle persone. Non c’è da stupirsi che il governo di Hong Kong, dopo aver imposto un giuramento di fedeltà ai dipendenti pubblici, stia cercando di fare lo stesso con gli insegnanti. A ciò si aggiunge la politica di sostituzione del cantonese con il mandarino. Il settore culturale si è trovato in balia della censura, tanto che persino guardare in privato dei documentari sulla rivolta del 2019 ormai è reato.
Questa repressione ha ripercussioni in Cina?
Ciò che accade a Hong Kong ha profonde ripercussioni su tutto il continente. Prendiamo ad esempio la Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China (HKA). Da più di trent’anni organizza una cerimonia per ricordare le vittime del massacro del 4 giugno 1989 in piazza Tienanmen. Fino all’anno scorso. L’Alleanza ha subito vessazioni tali da parte delle autorità che è stata costretta a sciogliersi il 25 settembre. In due anni, organizzazioni come questa, che da trent’anni operano a Hong Kong nel settore dell’ambiente, del lavoro o sulle questioni di genere, sono state tra le prime vittime della repressione. Quanto alle organizzazioni che intervengono a sostegno dei lavoratori in Cina, stanno sparendo una dopo l’altra dal 2015, da quando, il 9 luglio, le autorità del continente hanno iniziato a perseguitare i 300 avvocati che avevano sostenuto il “weiquan”, il movimento di difesa dei diritti delle classi svantaggiate e dei dissidenti. Tre anni dopo un’altra ondata di arresti aveva investito gli studenti che si erano mobilitati per i lavoratori della Shenzhen Jasic Technology Co., una fabbrica di Shenzhen, al confine con Hong Kong. Per i pochi gruppi rimasti la situazione è sempre più difficile, soprattutto da quando i media del Pcc hanno condannato non solo le organizzazioni che hanno ricevuto fondi statunitensi, ma anche, e per la prima volta, le organizzazioni europee che hanno finanziato dei gruppi a Hong Kong.
Che alternativa resta a questi movimenti sociali?
Sotto le pressioni di Pechino, le opposizioni si sono messe sulla difensiva per evitare nuove vittime. È una ritirata tattica. Ma l’attuale repressione mette a dura prova chi ancora ha la volontà di resistere, anche se solo simbolicamente. La dissoluzione del Ptu, il principale sindacato di Hong Kong, è stata controversa. Tecnicamente, è stata decisa con voto democratico dei delegati dei membri. In realtà la direzione aveva già deciso che il sindacato sarebbe stato sciolto dopo le minacce di un “intermediario” di Pechino. Minacce che il Ptu aveva reso note. Il ruolo di questi “intermediari” è di avvicinare chiunque rappresenti un potenziale pericolo per Pechino, scoprire cosa gli interessa di più (non necessariamente i soldi) e manipolarlo facendogli un offerta irrifiutabile. Ma il regime ha anche altri metodi per manipolare le persone, tramite minacce e ricatti.
Come spiega l’accanimento di Xi Jinping contro Hong Kong?
Pechino vuole concentrare il potere nelle sue mani e appropriarsi delle ricchezze della nazione. L’autonomia di Hong Kong può rappresentare un freno al suo progetto. Ma liberarsi di Hong Kong, vuole dire anche sbarazzarsi dell’influenza politica degli Stati Uniti e del Regno Unito. Hong Kong sta anche diventando uno dei fronti nella lotta globale per l’egemonia tra Cina e Stati Uniti.
Come vede questo scontro, spesso definito come una “nuova guerra fredda?”
Preferisco non parlare di “nuova guerra fredda”, perché rispetto all’epoca della guerra fredda, la situazione ora è molto diversa. L’attuale battaglia che Pechino sta portando avanti contro gli Stati Uniti, non è una lotta contro l’imperialismo, non intende sostituirlo con qualcosa di meglio. In questo dibattito, si dimentica spesso che, come socialisti, dovremmo mettere il benessere delle persone al centro delle nostre preoccupazioni. Gli osservatori che appoggiano Pechino in questa competizione scrivono che il governo del Pcc è riuscito a migliorare l’economia e a sradicare la povertà. Che il governo si è fatto carico del benessere del popolo cinese e che lo stato cinese è progressista, mentre lo stato americano è reazionario. Ma dimenticano l’essenziale, poiché le statistiche ufficiali sono sempre fuorvianti, se non del tutto false, e se si vuole conoscere la realtà bisogna ascoltare la gente comune. Cosa che fanno raramente. A mio avviso, nel definire la situazione della Cina, il primo criterio da prendere in conto non è il benessere economico dei lavoratori, ma il possesso dei diritti politici. Ogni volta che il popolo è stato privato dei suoi diritti, ha perso tutto. Anche se i redditi oggi sono accettabili, non si può stare sicuri. C’è sempre il pericolo di venire espropriati, o dallo Stato o da promotori immobiliari collusi con il Partito. Basta guardare cosa successe ai contadini ai tempi di Mao. Con la riforma agraria dei primi anni Cinquanta ai contadini furono attribuite delle terre, che persero però alcuni anni dopo a profitto dei cosiddetti comuni. Le hanno potute recuperare solo negli anni 80, per perderle di nuovo ora. Il diritto del lavoro non viene applicato dal massacro delle Ong del 2015. I diritti politici fondamentali sono continuamente calpestati dal Partito-Stato. Il regime cinese è profondamente ingiusto e la competizione Cina-Usa dovrebbe essere giudicata sulla base dell’interesse del popolo nella sua lotta storica per l’emancipazione. Certamente Pechino non è forte quanto Washington, ma lo è abbastanza per schiacciare il suo popolo e lo fa da decenni. In Occidente, molte persone rispettabili odiano l’impero americano. Ma non è necessario sostenere Pechino per esprimere la propria rabbia contro Washington. A queste persone vorrei dire che il Partito-Stato cinese non ha bisogno del loro sostegno, il popolo cinese invece sì. Ma chi è il “popolo cinese”? Raramente lo ascoltate, raramente incontrate i suoi veri rappresentanti nelle riunioni internazionali. Perché i veri militanti socialisti spesso sono braccati e messi in prigione. Eppure il silenzio del popolo cinese è il grido più forte del mondo! In passato è già capitato che il popolo cinese fosse ascoltato. Alcuni anni fa, dei media online avevano pubblicato un articolo su una possibile guerra tra Cina e Stati Uniti. Un commentatore aveva scritto che il popolo cinese avrebbe dovuto invitare i membri dell’Ufficio politico del Partito a dichiarare la guerra e a inviare sul fronte prima i membri del Comitato centrale, poi, se non fosse bastato per vincere, tutti i membri del Partito. Alla fine, il popolo cinese avrebbe comunque vinto. Quel commentatore aveva capito che l’eventuale guerra tra Cina e Stati Uniti non è la guerra del popolo cinese. Il popolo ha la sua guerra personale da portare avanti, per ripristinare la propria autostima e i propri diritti e per ottenere la libertà.
(Traduzione di Luana De Micco)