La proclamazione di otto ore di sciopero generale per quest’oggi ha suscitato nei benpensanti uno scalpore inusitato, dal sapore talmente vetusto da richiamare in molti fra noi i versi del compianto Paolo Pietrangeli: “Che roba contessa, all’industria di Aldo/ Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti/ Volevano avere i salari aumentati/ Gridavano, pensi, di esser sfruttati”.
Verrebbe da dire che questo impulso di disapprovazione in cui s’è riunita la ex “grande stampa”, di fronte a una scelta sindacale accusata di “lesa maestà”, ha di per sé il pregio di riportarci con i piedi per terra: torna a manifestarsi la centralità del lavoro, la protesta di piazza non resta appannaggio dei no-vax e dell’estrema destra.
Lo sciopero generale di otto ore è un evento raro, indica una situazione grave. Solo quattro volte la Cgil l’ha indetto da sola, altre tre, come oggi, insieme alla Uil. L’ingiustizia sociale che lo motiva si riassume in poche cifre. In Italia cinque milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 10 mila euro lordi l’anno. Tra disoccupati e inattivi si contano quattro milioni di persone. Tre milioni sono i precari, 2,7 milioni i part time involontari. Fate la somma e poi, se volete, pensate a quanti hanno smesso di votare. Non basta. Il Censis ha elaborato dati Ocse da cui si deduce che siamo l’unico Paese industrializzato in cui, negli ultimi 30 anni, le retribuzioni sono calate (del 2,9%). Un arretramento che neanche in Grecia e in Spagna si è verificato. Francia e Germania hanno visto crescere i redditi da lavoro di oltre il 30%.
Si obietterà che questa retrocessione del lavoro in Italia ha molti colpevoli, non ultimi i sindacati. Ma è evidente che di fronte al dramma della pandemia Covid, e con la dotazione eccezionale degli oltre 200 miliardi del Pnrr, dal Governo dei Migliori era lecito attendersi un impegno ben diverso a favore di chi sta pagando più duramente gli effetti della crisi. Invece si è imboccata la solita strada dei benefici a pioggia che avvantaggiano in proporzione i redditi medi e alti, escludendo anche il più timido provvedimento di redistribuzione della ricchezza; e rinunciando a inasprire l’azione di contrasto all’evasione fiscale. Non a caso la rottura fra i sindacati e il governo si è consumata sulla riforma delle aliquote fiscali, cioè sul patto di cittadinanza e di giustizia sociale senza cui la convivenza democratica rischia di soccombere, vittima di lacerazioni e disuguaglianze crescenti.
Ancora ieri, per la seconda volta in pochi giorni, Dario Di Vico ha attaccato sul Corriere della Sera i promotori dello sciopero, colpevoli di riproporre “l’antico paradigma del conflitto capitale-lavoro”. Per la verità, l’accusa è rivolta a una non meglio precisata “gauche italiana” (sic) “pervicacemente affezionata a una centralità del conflitto capitale-lavoro”. Non so davvero dove l’abbia trovata, questa sinistra italiana tardo-operaista. Preoccupati dei fragili equilibri di governo, non uno dei ministri, e neppure i segretari del Pd e di LeU, se la sono sentita di prendere posizione a favore della protesta sindacale. Quanto al M5S, continua a ricercare i consensi perduti facendosi paladino di agevolazioni e superbonus generici, buoni per tutti i gusti.
Se la sinistra negli ultimi 30 anni si fosse concentrata per davvero sul conflitto capitale-lavoro, chissà, forse non avremmo conosciuto la decurtazione delle buste paga e il dilagare del lavoro povero. A furia di considerare disdicevole, anziché fisiologico, il conflitto sociale, il sindacalismo confederale in molti settori si è visto soppiantare dal sindacalismo autonomo e corporativo. A furia di criticare i vincoli dei contratti nazionali, sta diffondendosi la piaga di accordi aziendali viziati dal caporalato e dalla violazione sistematica dei minimi retributivi.
Si sa, parlare di soldi suona volgare. Difatti la questione salariale, benché esplosiva, compare solo di sfuggita nell’agenda politica. Per mostrarsi aggiornati, come Di Vico, bisogna sostenere che il conflitto capitale-lavoro “ha trovato nel sistema delle relazioni industriali una buona regolazione”. Lo abbiamo constatato, dalla Fca all’Ilva. Così come abbiamo verificato i benefici del Jobs Act. Altri sarebbero i conflitti su cui il sindacato doveva intervenire: i giovani e le donne penalizzati, l’inserimento degli immigrati, la riconversione ambientale. Perché prendersela sempre con i padroni e il governo? Siamo nel Terzo millennio!
Lo sciopero di oggi ha un’indubbia natura politica. Ma non certo perché osa, per una volta, incrinare l’unanimità di consensi al governo Draghi, bensì perché riporta i sindacati a occuparsi di tasse e salari, chiedendo di avere voce in capitolo sulla destinazione dei fondi Pnrr e ignorando il ricatto di chi lo descrive ostile ai giovani, alle donne, agli immigrati e all’ambiente.