Tra gli ottimi argomenti con cui ieri su questa pagina Franco Monaco (che gli è amico da sempre) si è espresso contro un settennato bis di Sergio Mattarella al Quirinale, ce n’è uno su cui vorrei insistere. E lo faccio nella convinzione che, giunto a fine mandato, il capo dello Stato lo abbia ben presente, anche se non può dichiararlo con la brutalità concessa a un semplice opinionista. Ma avete presente quale messaggio giungerebbe alla cittadinanza – anzi, già arriva, per il solo fatto che diversi leader politici e giornali dell’establishment la raccomandino come soluzione ideale – dal mancato ricambio al vertice delle istituzioni? Lo traduco in soldoni: “È mai possibile che i politici non siano capaci di adempiere a una successione decente? Davvero l’Italia ha una classe dirigente così meschina e tremebonda da preoccuparsi solo di tirare a campare con una proroga mascherata, confidando che sia Mattarella, fra qualche anno, a togliere il disturbo?”.
Ci sentiamo ripetere che la soluzione del Mattarella bis sarebbe resa vantaggiosa, se non addirittura obbligata, dalla grave emergenza Covid. La stessa pandemia che ha già offerto il pretesto di rinviare un paio di turni elettorali amministrativi (e speriamo che nessuno proponga lo stesso anche per i 1.009 grandi elettori convocati il 24 gennaio prossimo). Questa idea tutta solo italiana di scadenze prorogate – pardon, il 24 dicembre scorso sono state rinviate anche le elezioni che dovevano tenersi in un Paese confinante: la Libia – non ha trovato applicazione in altri Paesi alle prese con la nostra stessa emergenza. Nel 2021 gli Usa hanno rimpiazzato Trump, in Israele hanno sostituito Netanyahu, in Germania il dopo Merkel è cominciato nel pieno della bufera dei contagi. Solo da noi circola questa idea balzana di congelare gli incarichi.
Colpisce che a farsi paladini della conservazione dello status quo siano i portavoce di forze che si vorrebbero progressiste: il Pd e il M5S. “Il giorno in cui Mattarella lasciasse il Quirinale sarei triste”, va ripetendo Enrico Letta. Non si tratta solo di un’espressione di riguardo, com’è chiaro. Somiglia molto a una dichiarazione di impotenza. Anche se non raggiunge il tasso di ipocrisia degli editorialisti secondo cui, per mantenere “il binomio Mattarella-Draghi” basterebbe esercitare nei prossimi giorni un’affettuosa pressione sul presidente acciocché egli receda dal suo “desiderio di tornare alla vita privata”. Fanno finta di non capire.
L’avvertimento giunto a più riprese da Mattarella non è una scelta personale. L’anno scorso il presidente si era già spinto fino al limite estremo del suo mandato costituzionale escludendo lo scioglimento delle Camere e portando Draghi a Palazzo Chigi. Ma ora lasciarsi coinvolgere, al vertice supremo, in una imbarazzante replica di quel discutibile “stato d’eccezione” sarebbe in contrasto con una regola democratica talmente ovvia che non c’era bisogno di scriverla in Costituzione: nessuno è indispensabile.
Qui si affaccia la seconda parte del ragionamento che Mattarella non può rendere esplicito, ma che di sicuro lo preoccupa: se di nuovo, come già nel 2013 con Napolitano, un Parlamento senza bussola si aggrappasse per disperazione al raddoppio di mandato, ciò alimenterebbe tra i cittadini l’illusione che per uscire dal pantano l’unica scorciatoia possibile sia un uomo (o una donna) forte. Davvero è necessario chiederselo: dopo un secondo bis di anziani presidenti, chi farebbe capolino nei saloni del Quirinale? Aumenterebbe la pressione di chi s’illude che un capo decisionista – politico, mediatico, finanziario o con la divisa, fate voi – possa rimediare a strattoni il degrado della classe dirigente. La democrazia vive di continua rigenerazione, di ricambio, di capacità di guardare avanti. Altrimenti si ammala.
È improbabile che la pressione esercitata dal centrosinistra per la riconferma di Mattarella vada a buon fine; ma resta comunque il segnale di una politica inceppata. A destra non hanno di questi problemi: per loro candidare il plutocrate ottantacinquenne Berlusconi, sfidando il grottesco, comunque vada a finire rimane un potente richiamo al passato nel quale far confluire le proprie energie vitalistiche. Non sottovaluterei la minaccia di uscire dal governo di unità nazionale fatta circolare da Berlusconi; né la pretesa di Salvini di imporre un “presidente di centrodestra” (altro che presidente super partes). Per ragioni anagrafiche l’uno e per una collezione di infortuni politici il secondo, si tratta di leader che potrebbero essere tentati di dare una spallata agli equilibri politici pericolanti. Non sarebbe certo la prima volta.
Illudersi che di fronte a questa offensiva il centrosinistra possa trovare riparo trincerandosi dietro al “binomio Mattarella-Draghi”, non solo trasforma i progressisti in conservatori, ma calpesta le speranze di rinnovamento dei suoi elettori.