Ci vorrebbe uno psichiatra e non solo un comico per indagare le ostinate ragioni che inducono la nostra destra patriottica a sterzare sempre all’ultimo momento per andare a sbattere, a tutta velocità, contro il muro più massiccio della decenza. E quello della realtà.
Stavolta per la corsa al Colle – che sulla carta e senza eccessivi sforzi li vedrebbe favoriti – hanno scelto di caricarsi sulle spalle il bagaglio più intrasportabile, l’ultra corpo del capo, Silvio B, esibendo la loro sottomissione quando forse non ce n’era più bisogno, visto che i malanni e l’età del loro padre-padrone consigliavano la meta più quieta di una panchina al sole, con annesso monumento equestre per farlo contento. È ricco che più non si può. Ha scampato i rigori della legge e sopporta in silenzio quelli più tormentosi delle giovani arpie che ancora battono cassa a fine mese. Ha più badanti in conto spese che nipoti. Più medici che processi. E guardie del corpo. E pregiudicati di varia entità, di vario calibro, come amici di penna. E demoni non ancora sazi dei danni che in mezzo secolo l’ex Cavaliere si è intestato, dalla diseducazione sentimentale di intere generazioni alla guerra permanente contro i codici civile e penale, alimentando l’odio contro i magistrati e le regole della legalità che i suoi soldati chiamano garantismo, avvelenandolo.
Perché umiliarsi pedalando controvento per farlo girare ancora una volta in giostra? Per i soldi che fabbrica? Per il suo strapotere mediatico? Per gli scheletri che maneggia in numerosi armadi a Roma, a Palermo, a Mosca? Per il suo minaccioso potere di ricatto? Sì, certamente. Ma tanta legna da ardere non basta a spiegare questo pubblico rogo della ragionevolezza, del decoro, se ci fosse decoro, questo cupio dissolvi che li muove.
Forse va aggiunta una ulteriore ragione a tanto masochismo, il piacere capovolto che consiste non nel vincere la partita, ma nel perderla. Perderla alla grande, rovinosamente. E in quella perdita trovare quel vincolo identitario di vittime del sistema, vittime della sinistra e dell’élite, vittime della matrigna Europa, che è di gran lunga il modo più comodo per sopravvivere senza troppi pensieri e senza mai il peso delle responsabilità. È già successo in modo persino spettacolare dentro la bella cornice delle pupe leopardate del Papeete, con il pubblico suicidio alcolico di Matteo Salvini, quando era al massimo del suo potere e a un passo dalla vetta. E in forma di farsa, il cortocircuito si è ripetuto nella corsa elettorale per i sindaci di Roma e Milano quando Salvini e Meloni hanno scelto tra i mille possibili i due candidati peggiori. A Roma un tale radioamatore che scappava dai dibattiti, travestito da centurione. A Milano addirittura un inconsapevole pediatra, costretto a buttarsi dalla finestra elettorale, da una Licia Ronzulli, che quando non gioca a burraco fa ancora il bello e il cattivo tempo tra gli arcoriani milanesi.
Diranno i politologi che solo alla fine della partita si vedrà chi vince e chi perde davvero la corsa del Colle. Se issare Silvio B. sia solo tattica per liberarsene una volta per tutte, assorbire la sconfitta, ripartire. O strategia per perdere ancora di più, distruggere quel che resta dell’Italia intera. Poi spingerla ai margini dell’Europa, sulla scia dell’Ungheria di Orban o addirittura contro, come la Serbia isterica di Djokovic. Giocarci la borsa, la faccia, il futuro. Scenario non del tutto inverosimile. Visto che a perfezionarlo nel danno contribuisce l’eterno pigolio della sinistra delle larghe intese. Quella che invece di rispondere con una risata e con l’elenco completo dei misfatti di Berlusconi, ne ammette uno solo, “quello di essere divisivo”. Un neo maligno, ma che sul mantello del giaguaro neanche si nota. Specialmente dopo averci fatto quattro governi insieme, unitariamente.