Puntuale come a ogni elezione presidenziale dagli anni 80 del secolo scorso, si affaccia la candidatura di Giuliano Amato. Uomo dal cognome-ossimoro e dai molti soprannomi – “Dottor Sottile”, “Tigellino”, “Sir Biss”, “professionista a contratto” e “Giuda” (sugli ultimi due, copyright di Bettino Craxi) – è il Picasso della politica. Solo che il grande Pablo conobbe solo quattro periodi: blu, rosa, cubismo analitico e cubismo sintetico. Il Nostro ben di più.
C’è l’Amato socialista unitario, amico di Pci e Cgil. L’Amato giolittiano che nel 1976, dopo la svolta dell’hotel Midas con l’ascesa di Craxi a segretario, lo chiama “cravattaro” e “autocrate”. L’Amato craxiano anticomunista. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfaro) e filocattolico. L’Amato scalfariano (nel senso di Scalfari) e laico. L’Amato filoberlusconiano. L’Amato dalemiano. L’Amato neoulivista. L’Amato equivicino che sta con tutti. L’Amato montiano e anticasta che insegna come tagliare i costi della politica in cui sguazza da mezzo secolo. L’Amato napolitaniano che si parcheggia alla Consulta in attesa di ereditare il trono di Re Giorgio e poi di Mattarella.
L’Amato che ogni dieci anni si ritira dalla politica e ogni volta vi rientra senza mai esserne uscito, candidato a tutto e assiso dappertutto, anche se finge sempre di non essere stato da nessuna parte. E riesce a farlo credere perché non lascia mai impronte digitali, essendo notoriamente privo di dita, o almeno di polpastrelli.
Nato a Torino il 13 maggio 1938 da una famiglia di origini siciliane che presto si trasferirà in Toscana, Amato fa il liceo classico a Lucca, si laurea in Giurisprudenza alla Normale di Pisa e prende il master alla Law School della Columbia University. Dal 1975 insegna Diritto costituzionale comparato alla Sapienza. Politicamente nasce nel Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), poi trasloca nel Psi come testa d’uovo della corrente di sinistra di Antonio Giolitti. Nel 1978 fonda con Giorgio Ruffolo “Progetto Socialista”. E nel 1979, sempre da sinistra, tuona contro le “forme degradanti” del dibattito interno dopo lo scandalo delle tangenti arabe Eni-Petromin.
Per la questione morale Franco Bassanini e altri lasciano il partito, nel frattempo agguantato da Craxi. Lui diventa il consigliori di Bettino, che solo pochi anni prima chiamava “il cravattaro” e “l’autocrate”. Il 7 luglio 1981 è in partenza per un viaggio di studi a Washington e teme che qualche altro rampicante garofanato lo scavalchi a corte. Così scrive a Bettino una lettera untuosa per mettersi al suo completo servizio, anche dall’altra sponda dell’oceano, piatendo un incarico purchessia, anche di “portavoce”, per “farmi usare, se serve”.
E già che c’è vellica le fregole ducesche del capo col suo progetto di Repubblica presidenziale lanciato un anno prima su Repubblica: “Ormai si avvicina il tempo della mia partenza per Washington (25 agosto). Starò lì diversi mesi: per rendermi utile al partito, non potrei avere una qualche investitura, che mi permetta di avere rapporti per conto del Psi, di farmi usare – se serve – come tramite, portavoce etc?… Da tempo arrivano da varie parti sollecitazioni a riprendere il discorso presidenziale. Se Craxi ci sta – sento dire – il polo laico lo aggregherà con questa carta. Riflettici con calma. Ma definiamo una linea. A presto. Giuliano”.
Coda e Zampini. Nel marzo 1983 esplode a Torino la prima Tangentopoli d’Italia: il sindaco comunista Diego Novelli riceve la denuncia di un imprenditore costretto a pagare tangenti e lo accompagna in Procura. Finiscono in carcere il faccendiere Adriano Zampini, il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili col fratello Nanni, il capogruppo comunista in Regione Franco Revelli, mentre il capogruppo del Pci in Comune, Giancarlo Quagliotti è indagato. Craxi tuona subito contro “la deliberata ferocia e l’inumana spettacolarità” dell’inchiesta. E nomina commissario del partito prima Giusy La Ganga (che finisce presto indagato) e poi il professor Amato. Che fa subito un cazziatone a Novelli per non avere “risolto politicamente la questione anziché andare dai giudici”. Cioè per non aver insabbiato tutto.
Il 27 giugno 1983, candidato per la prima volta alla Camera, Amato è il socialista più votato in Piemonte: quasi 33mila preferenze. Di quella campagna elettorale si parlerà a lungo. Perché l’irrompere di Amato, con la diretta investitura di Craxi, semina lo scompiglio tra le correnti del Psi torinese. Amato, in seguito a forti pressioni del vicesegretario Claudio Martelli, viene “adottato” da uno dei signori delle tessere: Francesco Coda-Zabet, esponente della sinistra con solidi agganci nelle autostrade, nella sanità e nelle banche.
“Per la prima campagna di Amato – ci racconterà un alto esponente del Psi dell’epoca, chiedendo l’anonimato – fu preventivata una spesa di 1 miliardo di lire. E non fu facile trovarlo. Ma chi lo fece si svenò volentieri, sperando che Giuliano si rivelasse un buon ‘investimento’. Gli amici di Coda riuscirono a racimolare 700 milioni. Gli altri 300 li procurò l’entourage di Giuseppe Rolando, assessore socialista ai Trasporti, che però di suo non aveva soldi e usava ricorrere a sistemi di approvvigionamento ‘alternativi’…”. Le indagini del giudice istruttore Sebastiano Sorbello dimostreranno che Rolando prendeva tangenti sugli appalti comunali dei trasporti e si faceva pure finanziare dai cambisti di Saint-Vincent rilasciando in garanzia assegni a vuoto o postdatati.
Amato dichiarerà di aver speso, per quella campagna, 50 milioni di lire. Ma il nostro interlocutore aggiungerà un racconto di seconda mano che, se fosse vero, sarebbe davvero avvincente: “Appena eletto, Amato volò a Roma per diventare sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Craxi. E quasi subito si dimenticò degli amici che l’avevano aiutato, lasciandoli pieni di debiti. Coda-Zabet e Rolando, infuriati, decisero di chiedergli indietro i soldi. E gli diedero appuntamento in un ristorante di Roma. Quando Amato arrivò a mani vuote, Coda perse la pazienza, impugnò una sedia e cominciò a rotearla per aria, minacciando di colpirlo, mentre Rolando tentava di calmarlo e Amato guadagnava rapidamente l’uscita. I due se ne tornarono a Torino con un pugno di mosche”. Poi finiscono entrambi in carcere.
Il primo Salva-Silvio. Ottobre 1984. Tre pretori – Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara – decidono di far rispettare la legge che vieta alle tre reti Fininvest di trasmettere in contemporanea (“interconnessione”) su tutto il territorio nazionale, come può fare solo la Rai. E sequestrano gli impianti fuorilegge. Silvio Berlusconi potrebbe seguitare a trasmettere i programmi (tutti registrati) a orari scaglionati sulle sue tv locali con i loghi di Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscurarle per dare la colpa ai giudici “comunisti” e chiamare il popolo dei Puffi e delle telenovelas alla rivolta contro l’illiberale tentativo di applicare una sentenza della Corte costituzionale.
Il premier Craxi, in visita ufficiale a Londra, annulla l’appuntamento con Margaret Thatcher e torna precipitosamente a Roma per varare in tutta fretta il “decreto Berlusconi” che cancella le ordinanze dei giudici e legalizza l’illegalità, anticipando di tre giorni il Consiglio dei ministri in seduta straordinaria: mai vista tanta urgenza, nemmeno per l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore della legge ad personam – la prima di una lunga serie – è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato.
Ma Palazzo Chigi assicura che il provvedimento è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica legge sulle tv. Balle. Persino il Parlamento italiano si ribella e vota a sorpresa per l’incostituzionalità del decreto. Così i pretori tornano a imporre la legge e il Cavaliere a “oscurare” i suoi network, con annessa campagna di spot e programmi-piagnisteo. E Craxi minaccia gli alleati: elezioni anticipate se non salveranno il compare Silvio.
Orgasmo da Rotterdam. Il tempo stringe, il decreto sta per decadere, la sinistra annuncia l’ostruzionismo. Ma Craxi e Amato ottengono dal presidente del Senato Francesco Cossiga il contingentamento dei tempi per gli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli emendamenti, impongono la fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto scadono il 6 maggio 1985, dopodiché Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust. Che però non arriva. Scaduti i sei mesi, Palazzo Chigi concede un’altra proroga fino al 31 dicembre ‘85. Data peraltro fittizia pure quella: il governo stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, ma “transitorio”. Cioè eterno. Il 3 gennaio ‘86, scaduta la proroga, basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la norma non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo.
Nel 2009, intervistato da Report su quel trucchetto da magliari, Amato anziché arrossire s’illuminerà d’immenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Non per nulla ora è giudice costituzionale.
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(1 – continua qui: Amato e le prove d’amore – https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/20/amato-e-le-prove-damore/6461930/)
(2 – continua qui: Affossa-lira e salva-ladri – https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/21/affossa-lira-e-salva-ladri/6463123/)
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