Gira e rigira, stiamo arrivando al dunque: per riuscire a eleggere un presidente a larga maggioranza – che sia Draghi o un altro – abbisogna che prima i partiti dell’attuale maggioranza sottoscrivano un patto di fine legislatura. Cioè decidano di continuare a governare insieme. Facendo finta di credere che le secche in cui ha rischiato di arenarsi negli ultimi mesi il governo Draghi fossero solo un incidente di percorso; e che l’interesse nazionale imponga di non separarsi fra destra e sinistra.
Più o meno volentieri, lo dicono tutti, da Letta a Salvini, da Conte a Berlusconi, che la legislatura deve continuare con questa formula.
In tal senso si è sbilanciato anche Draghi nelle uniche dichiarazioni politiche che si è concesso: con me in veste di garante, o senza di me, dovrete continuare a stare insieme. Non più per imposizione dall’alto, ma per scelta politica.
C’è solo un problema. Per sottoscrivere la proroga di questa alleanza degli opposti, la destra ha bisogno di riscuotere un forte segnale di riconoscimento dalla controparte. È il messaggio rappresentato dalla candidatura di Berlusconi: dovete accettarci per quel che siamo, anche se vi facciamo schifo.
In subordine all’ideona del pregiudicato al Quirinale, quale può essere, dunque, il segnale in grado di saziare una destra che si muove a suo agio nel Parlamento zeppo di transfughi ammutinati?
Salvini che torna a fare il ministro della propaganda al Viminale coi voti della sinistra? (bum)
Berlusconi nominato senatore a vita insieme a Prodi come suggello della raggiunta pacificazione nazionale? (doppio bum)
Mi limito a queste due ipotesi per evocare quanto sarebbe costoso per Pd e M5S rimanere incastrati in un simile patto di unità nazionale. Un prezzo talmente salato, e in uno scenario così sdrucciolevole, che al patto di fine legislatura qualcuno potrebbe preferire le elezioni anticipate.