Impunità

Il senso di Bolsonaro per il clima: meno foreste, più razzie

La denuncia di Greenpeace - Dall'inizio della sua presidenza, nel 2019, in Brasile la deforestazione amazzonica è aumentata del 75,6%, così come è accresciuto del 40% il numero di conflitti per le terre. A ottobre si voterà

Di Martina Borghi, responsabile campagna Foreste di Greenpeace Italia
1 Febbraio 2022

In Brasile è tempo di bilanci: le elezioni presidenziali si terranno a ottobre e il popolo brasiliano potrà scegliere se eleggere un nuovo presidente o confermare Jair Bolsonaro.

Secondo il rapporto di Greenpeace “Dangerous man, dangerous deals”, dalla salita al potere di Bolsonaro, nel 2019, in Brasile la deforestazione amazzonica è aumentata del 75,6 per cento, gli allarmi per gli incendi forestali sono cresciuti del 24 per cento e le emissioni di gas serra del Paese sudamericano sono aumentate del 9,5 per cento. Insomma, l’agenda politica dell’attuale presidente del Brasile ha peggiorato le condizioni di ecosistemi preziosi per la salute del Pianeta e di numerosissimi popoli indigeni che lottano per proteggerli.

Il governo Bolsonaro, infatti, non ha mai fatto mistero della sua volontà di indebolire le istituzioni preposte alla salvaguardia dell’ambiente e dei diritti dei popoli indigeni, partendo proprio dalla delicata questione del riconoscimento e la demarcazione delle terre ancestrali. Basti pensare alle dimissioni di Ricardo Salles, ex ministro dell’Ambiente indagato dalla Corte suprema per aver interferito nelle indagini sulle esportazioni illegali di legname. Un altro esempio emblematico è la scelta di mettere un esponente della lobby brasiliana dell’agribusiness, Marcelo Augusto Xavier da Silva, a capo della principale agenzia governativa responsabile della protezione delle terre indigene e dell’attuazione delle politiche riguardanti i popoli indigeni (FUNAI). Favorendo sfacciatamente gli accaparratori di terre, il 22 aprile 2020, Xavier da Silva ha autorizzato il rilascio di titoli di proprietà privata sulle terre indigene in attesa di demarcazione.

La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più evidente il disprezzo per la vita dei popoli indigeni del governo Bolsonaro, che non si è assunto la responsabilità di attuare azioni urgenti per contenere il dilagare della pandemia tra le comunità indigene, aggravato proprio da chi entrava in contatto con queste ultime dopo aver invaso le loro terre per saccheggiarle e alimentare il commercio legale e illegale di prodotti destinati, in buona parte, anche al mercato europeo, come legname, metalli e minerali preziosi, soia e carne.

I dati diffusi dalla Commissione Pastorale per la Terra mostrano che i primi due anni del governo Bolsonaro sono stati caratterizzati da un aumento di circa il 40 per cento del numero di conflitti per le terre, che in molti casi sono sfociati nella morte di coloro che si sono spesi per difenderle. Nel 2020 erano infatti in corso circa 1.576 controversie riguardanti la proprietà dei terreni (poco meno della metà riguardano popoli indigeni), il numero più alto dal 1985. Secondo un rapporto pubblicato da Reporter Brasil, nel 2019 erano stati 32 i morti causati da conflitti per la proprietà delle terre, ma ad oltre un anno di distanza il 61 per cento delle indagini era ancora in corso.

Nessun intervento da parte del governo neanche a fronte degli attacchi contro i popoli Yanomami e Munduruku, che lottano contro l’estrattivismo. Le loro terre sono infatti ricche d’oro e negli ultimi anni sono state invase da un numero sempre crescente di cercatori d’oro pronti a tutto. L’impunità e l’indifferenza delle istituzioni hanno contribuito a rendere gli attacchi sempre più violenti: l’11 maggio uomini armati hanno aperto il fuoco contro alcuni Yanomami uccidendo due bambini. Solo qualche mese prima, il 25 marzo 2021, la sede dell’associazione delle donne Munduruku “Wakoborun” era stata derubata e data alle fiamme.

Se l’Unione europea vuole davvero fare qualcosa per opporsi a questo scempio e proteggere la biodiversità, deve fermare l’accordo Ue-Mercosur una volta per tutte. E deve adottare politiche che portino alla diminuzione dei consumi ed evitino l’immissione, sul mercato comunitario, di prodotti e materie prime legati alla distruzione di ecosistemi preziosi per la salute del Pianeta e alla violazione dei diritti umani.

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