Dotato per fortuna di sufficiente autoironia, ieri a Montecitorio re Sergio il Buono aveva l’aria di non prendere troppo sul serio il clima sovreccitato che ha contraddistinto la sua incoronazione. Si è concesso un pizzico di ipocrisia definendo “inattesa” la “nuova chiamata” cui ha deciso di non sottrarsi, estendendo a 14 gli anni del suo mandato presidenziale. Se lo porterà a termine, come gli auguriamo – anche perché le alternative rischiano di essere peggiori – batterà ogni record di durata in una democrazia occidentale. Charles de Gaulle si ritirò dopo un decennio.
L’insostituibilità di Sergio Mattarella non costituisce certo un sintomo di buona salute della nostra democrazia. L’esultanza che prorompeva ieri a scatti nell’emiciclo dei grandi elettori – con l’unica eccezione dell’estrema destra fiduciosa di trarre vantaggio dalla crisi di sistema incombente – somigliava a una cortina fumogena destinata presto a dissolversi, svelandoci un assetto istituzionale già in buona misura modificato. Tutto ha avuto inizio esattamente il 2 febbraio dell’anno scorso, quando, per la prima volta nella storia della Repubblica, il presidente Mattarella ha chiesto al Parlamento di conferire la fiducia a un governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.
Si badi bene: unità nazionale energicamente suggerita dall’alto. Cioè non maturata nel confronto fra i partiti, che anzi fino all’ultimo la escludevano, ma legittimata per l’appunto in altezza, dal suo “alto profilo”: Draghi, la pattuglia dei suoi tecnici, e i ministri politici da lui selezionati fra i più consenzienti. È bastato restituire per una settimana ai partiti la titolarità della scelta del capo dello Stato perché si determinasse quello che Mattarella ieri ha definito “uno stato di profonda incertezza politica che non poteva prolungarsi”. È apparso cioè chiaro che Draghi eletto al Quirinale, com’era nei desiderata dei diretti interessati, avrebbe comportato l’inevitabile sua sostituzione alla guida del governo da parte di un altro tecnico; perché nessuna forza politica dell’attuale maggioranza avrebbe mai concesso quell’incarico ai rivali.
Di qui la rapida marcia indietro di Mattarella, in nome della “stabilità di cui si avverte il bisogno”. Non si poteva che lasciare le cose come stanno. Una forzatura costituzionale tira l’altra. L’anno scorso, la scelta tecnocratica; quest’anno, per la seconda volta di fila, la riconferma di un presidente in carica che continua a ritenerla indispensabile.
La domanda allora è: fino a quando? Tutti i partiti della maggioranza attuale, pur nella loro evidente diversità che ha paralizzato gli ultimi mesi del governo Draghi, si son dichiarati favorevoli a rinnovare un “patto di legislatura”. Strano, visto che la legislatura sta giungendo a scadenza. Che intenzioni manifesteranno i partiti di governo ai loro elettori fra qualche mese, anche per giustificare la scelta compiuta?
Una cosa è sicura: non potranno chiedere il voto su programmi contrapposti in materia sociale, economica, fiscale, di diritti civili, e al tempo stesso aderire all’invito di Draghi e Mattarella che all’unisono gli chiedono di continuare a governare insieme.
Qualcuno, difatti, ha cominciato ad auspicare che Draghi continui il suo lavoro anche dopo il 2023, perché è il più bravo e perché l’emergenza non si esaurirà in un anno. I più intraprendenti consigliano di intestarselo candidato premier già in campagna elettorale. Ormai i “draghiani” si fanno sentire in ogni partito e stringono patti trasversali, sul modello dell’inedita coppia Di Maio-Giorgetti.
Svincolarsi da questa realtà di “doppio presidenzialismo” imperniata sul binomio Draghi-Mattarella risulterà difficilissimo, anche se proseguire col governo degli opposti comporterà uno snaturamento dei partiti che ne fanno parte, e la disaffezione di molti loro sostenitori.
Oggi chi soffre di più questo dilemma è la Lega, timorosa di venir cannibalizzata da Fratelli d’Italia, avendo constatato che anche in Italia, così come già accade in Francia, la tecnocrazia al potere lascia alla destra il monopolio dell’opposizione. Mentre la sinistra, ispirata da un malinteso senso di responsabilità, vede frantumarsi le sue componenti minoritarie più radicali e convergere al centro il grosso del Pd.
Acclamando Mattarella come il loro salvatore, i parlamentari ieri rendevano certo omaggio a una personalità dal profilo specchiato come se ne contano ormai poche nei loro banchi; ma gli applausi tributati a ogni buona causa elencata dal presidente segnalavano anche una disperata propensione al trasformismo.
Re Sergio si è mostrato benevolo nei loro confronti. Ha evitato di indicarli fra gli artefici dell’astensionismo che dilaga fra i cittadini. Spero di sbagliarmi, ma temo che ricorderemo la cerimonia d’incoronazione celebrata a Montecitorio alla stregua dell’ultimo gran ballo del Titanic.