Due film in uno. Come se in Paolo Taviani si fosse incorporato il compianto Vittorio in un unisono ancor più emblematico. Perché Leonora Addio, naturalmente dedicato al fratello con un cartello scritto a mano come incipit, è emblematicamente un film sull’elaborazione del lutto, a doppio e pirandelliano livello.
“Vittorio è qui con me, lo è sempre stato. Lo sentivo dietro le spalle mentre giravo questo film di cui forse sarebbe stato molto contento. Alla fine di ogni scena mi voltavo sul fianco cercando spontaneamente la sua approvazione: anche senza vederlo lui c’era”, è il primo commento commosso del fratello 90enne.
In uscita domani per 01 Distribution, Leonora Addio è l’unico concorrente italiano alla 72esima Berlinale, già vinta dai fratelli Taviani nel 2012 con Cesare deve morire, ed è un film “tutto vero e tutto finto” per dirla con l’arguzia del cineasta toscano in un’espressione che tanto sarebbe piaciuta a Pirandello, colui da cui tutto parte e tutto torna, dal titolo all’ultimo fotogramma di questo “doppio film” epico e comico, tragico e beffardo. Complesso, visionario, metafisico e imprevedibile, Leonora Addio è, dopo Kaos del 1984 e Tu ridi del 1998, il terzo adattamento/omaggio a Pirandello di Taviani, ma è anche quello più compenetrato dal senso “pirandellesco” della vita che sfugge alla ragione per sostanziarsi di misteri buffi, tempi morti, personaggi teneri e folli.
“L’idea di Leonora Addio è nata appena dopo l’uscita di Kaos” spiega Paolo Taviani. “Volevamo aggiungervi un episodio sull’odissea straordinaria quanto incredibile delle ceneri di Pirandello, una vicenda così folle che sembrava uscita dalla sua penna. Ma i soldi erano finiti”. Dopo quasi quarant’anni il desiderio era rimasto intatto, anzi accresciuto dalla volontà di una dedica fraterna. “Mi ci sono tuffato. Ne è uscito il racconto fatto di verità che appartengono a me, a Vittorio, a Pirandello, così come alla Storia e alla fantasia”.
Il film, dunque, parte con il racconto del viaggio delle ceneri del genio di Girgenti e si chiude con la novella Il chiodo, scritta da Pirandello 20 giorni prima di morire nel dicembre 1936. Sorta di road movie della durata di 26 anni, la narrazione del trasporto dell’urna funeraria sembra un sogno arrivato dalla Luna: in un vitalissimo bianco&nero, interpretato da un intenso Fabrizio Ferracane, si mescola alle memorie personali e universali di quel tempo fascista e bellico. Per rievocarle Taviani si è affidato a spezzoni del grande cinema neorealista laddove “vibra la verità che Vittorio e io abbiamo vissuto. Ho rivisto la mia giovinezza nello sguardo di Visconti, Rossellini, Lizzani, De Sica… Ho compreso ancora una volta la ragione per cui abbiamo scelto di fare il cinema”.
Il cromatico passaggio a Il chiodo assume invece l’energia passionale di Marte: il Bastianeddu di Kaos diventa il ragazzino killer emigrato a Brooklyn penetrando così l’ultima novella di Pirandello, tra le più misteriose della sua sterminata produzione letteraria. Su soggetto impostato con Vittorio, Il chiodo vibra di surrealismo. “ Ho affondato il coltello nella follia orrorifica ancor più di quanto fece Pirandello” sottolinea Taviani, chiudendo la sua immaginifica parabola dove l’aveva iniziata, cioè a teatro. “Del resto il teatro è vita: lì tutto inizia e tutto si chiude”. Applausi.