Non sono arrabbiata con te, Virgilio, perché mi hai usata ai fini del tuo celebre progetto. Capisco le necessità letterarie, l’impeto propagandistico imposto da quella specie di ministro della Cultura che era Mecenate e dal suo capo megalomane, il princeps Augusto. Capisco anche che tu, mantovano imbottito della mentalità romana antica, non avessi una grande considerazione delle donne. Non negarlo, sarebbe inutile, l’hai anche scritto nero su bianco nel IV canto dell’Eneide, ai versi 569-570: “Varium et mutabile semper femina” (sempre la donna è una cosa volubile e incostante).
Quando hai deciso che la regina fenicia potesse essere inserita nell’impianto celebrativo della gens Iulia? Io, Didone, rappresento una piacevole distrazione nella tua storia, il tocco esotico: dopo tanti travagli per lui e la sua flotta, Enea andava rifocillato e lusingato, ci voleva una pausa. Aveva rinunciato alla patria, aveva visto perire troppi amici, aveva perso la moglie Creusa mentre Troia bruciava, dopo era morto l’amatissimo padre Anchise e un naufragio l’aveva sbattuto sulle coste puniche. Virgilio, tu hai deciso il senso di Cartagine nella mappatura dell’itinerario: la mia città funge da breve area di sosta all’interno di un sistema dove io sono soltanto una comparsa. Certo invitante, ma momentanea. Dopo aver compiuto il mio dovere, devo sparire, sarei fastidiosa per la narrazione. Il Fato ha in serbo altro per l’eroe: nuovi viaggi, persino una discesa nell’oltretomba, il contributo a una fondazione e una moglie latina. Poi c’è in ballo qualcosa di prezioso cui ambisce quasi ogni mortale: la gloria eterna. Chi sono mai io per intralciare tutto ciò?
Così, nel tuo libro, mi hai fatto fare una ben triste figura, mi hai resa amante del tuo eroe, femmina passiva che casca tra le sue braccia non perché realmente lo desideri, ma perché due dee hanno macchinato l’intrigo. Io e Enea ce la spassiamo per un po’: lui ne esce da vero macho turco che non si lascia scalfire, mentre io faccio la figura della cretina, trascurando indegnamente la mia città – città che, ricordiamolo, non mi è stata regalata, ma ho fondato con il sudore, con l’astuzia e col sangue.
Poi, in onore al senso del dovere – del resto lo definiscono pius e già questo appellativo anticipa quanto sia noioso – Enea medita di mollarmi in sordina, scappare via come un coniglio. Solo che la gente è pettegola e del resto il troiano non è nemmeno una volpe, dal momento che allestisce la flotta alla luce del sole e tutti lo vedono. Anche qui, Virgilio, non ci siamo. Mi dipingi prima come una pazza isterica, “una baccante” invasata, poi come una deboluccia che implora a lui che fugge di restare ancora un po’. Ma quando mai si fa così con chi non ti vuole? Io, dopo tutto quello che ho passato… Dopo che mio fratello mi ha ammazzato lo sposo. Io che, nonostante i tempi, fui tanto ardita da mettermi a capo di una spedizione e fondare una città in contrade lontane nonché ostili.
Ho illustrato la situazione a Enea, quando l’ho colto con le mani nel sacco, qualora fosse partito: “Le libiche genti già mi odiavano perché disprezzai il re getulo, mentre ora – mi accuseranno – mi sono svagata con uno sconosciuto venuto dall’Oriente. Mio fratello Pigmalione, saputo della tua beffa ai miei danni, potrebbe anche decidere di stanarmi fin qui e rubarmi tutto ciò che ho costruito…”.
Lasciamo perdere le parole con cui lui mi ha liquidato. Dapprima ha ascoltato le mie rimostranze con la sua faccia di bronzo, finché ha proferito, come se mi facesse una concessione: “Ti spiegherò la questione brevemente, Didone”. Intendendo: non perderò molto tempo con te. E subito dopo ha reso la conversazione di uno squallore spiazzante: “Non ti ho mai promesso niente, quando mai ci siamo sposati?”, ha dichiarato. Poi, certo, ha cercato di zuccherare la cosa buttandola sulla stima, su quanto fossi una gran donna e altre imbecillità che dicono gli uomini quando sono spaventati. Ha scomodato perfino gli dei e, ciliegina sulla torta, ha ammesso che, se davvero avesse potuto esprimere un desiderio, per prima cosa sarebbe tornato a Troia, avrebbe voluto che fosse ancora splendida e intatta. Un nuovo modo per chiarire che io non ero importante. Che venivo al quarto, al quinto, all’ultimo posto.
Ecco, alla fine di questo disastroso confronto io dovrei essere incazzata nera, dirgli di voltare i tacchi e sparire dal mio cospetto entro dieci secondi, pena l’incenerimento.
Invece no, tu, Virgilio, hai avuto la grandiosa idea di farmi suicidare. Così mi sarei infilzata con la spada per un uomo che, si sapeva fin da subito, sarebbe stato solo di passaggio?
Non ti importa che io risulti una psicolabile manipolata senza dignità. In questa storia sono uno stupido gingillo nelle vostre mani. Una bambolina ottusa. Non decido nulla tranne la mia morte e sembra quasi una ripicca capricciosa.
Qualcuno se lo sarà chiesto, in questi anni, leggendo l’Eneide: come è potuto accadere che io mi fossi ammazzata per la partenza del troiano? Dopo tutte le avversità che avevo affrontato… Anch’io esule, svantaggiata come donna, giovane vedova, in fuga da un fratello avido che mi aveva trucidato il marito, abituata agli assalti quotidiani dei getuli, mi ero sempre difesa a testa alta: io ero una guerriera. E le guerriere non si comportano così.
Non che sia tutta farina del tuo sacco, Virgilio. Hai ripreso una suggestiva leggenda africana del IX sec a.C., quella di Elissa l’“errante” che realmente si tolse la vita (ma per altri motivi), ti sei concesso una forzatura cronologica e, con la tua indiscutibile abilità stilistica, l’hai resa escamotage letterario.
Come ti dicevo sopra, non ce l’ho con te. Ma nemmeno tu e i tuoi amici puristi dovete prendervela se qualcuno adesso cambia il corso di questa storia perché ritiene che io me lo meriti. E soprattutto perché la condizione delle donne nei secoli dipende anche da come esse sono state narrate, dal momento che le parole rivelano chi siamo. Sempre.