Ne Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) discuto le disuguaglianze di genere e le retoriche del maschilismo benpensante servendomi di cinque figure emblematiche: il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, e il fuoricampo attivo. Tra di esse, la mappa è lo spazio simbolico più utile per capire il sistema di insicurezze e di squilibri naturalizzati che intrappolano l’argomento del merito femminile.
La mappa infatti è lo spazio delle donne che si ha il potere di allestire e delimitare tutte le volte che vorremo “comporre” una lista. Questa non agisce mai, banalmente, come un elenco, ma è una rappresentazione del territorio, una messa in vista dell’essenziale, un ritratto (o autoritratto) di famiglia. Perciò sto usando la parola “comporre”, che vuol dire formare un tutto unico mettendo accanto parti diverse, ma che offriranno, attraverso gli effetti di insieme e le proporzioni, un modello possibile del mondo. Potrà trattarsi di una lista elettorale, di partecipanti a un dibattito, a un concorso, a una redazione, a un Festival, a un’antologia, a una giuria; o di una bibliografia, una rassegna, una collana editoriale, e ogni altra occasione, a qualsiasi livello, in cui si fa e si professa cultura e si elabora discorso pubblico (vale a dire si propongono modelli di valori e di collettività). Far caso a quelle liste, mentre si preparano, è una presa di posizione culturale e etica, perché fa spazio a distinzioni e ritratti di un’idea di società che favoriranno o sfavoriranno il modo in cui si può percepire il proprio posto nella gerarchia sociale, e le opportunità che si hanno, a seconda del corpo, del genere e dell’appartenenza a un gruppo. Gli appelli sorpresi alla distrazione o all’ironia sono fuori tempo e fuori luogo, quando si rimuove l’importanza della visibilità delle donne, che andranno incluse perché non vanno escluse – anche avere coraggio di stare nella lettera delle parole può favorire la parità.
È vero, le persone non vanno tenute in conto solo per il loro genere, come si replica di solito e come in effetti è accaduto per millenni, ma questo è ciò che è successo agli uomini, compresi coloro che non avevano nessun merito tranne quello di non essere donne. Può essere interessante, per esempio, riconsiderare il racconto contenuto dalla famosa foto scattata durante la Maratona di Boston del 1967, dove si vede una donna (Kathrine Switzer) strattonata da alcuni uomini che tentano di impedirle di correre. Quell’immagine racconta un’azione, uno stress, e uno stratagemma. C’è una ragazza che corre, malgrado la gara fosse vietata alle donne; ci sono altri che tentano di fermarla, aggiungendo alla fatica sportiva lo sforzo di superare l’ostacolo; e infine c’è pure, in maniera sottintesa, l’espediente grazie al quale l’atleta con la maglia numero 261 era riuscita a iscriversi: indicando solo le iniziali del suo nome. Senza essere identificata per il genere, vale a dire dando per scontato che fosse un uomo, meritava di essere ammessa, cioè di non essere esclusa. Questo è il perimetro simbolico del merito collaudato da un mondo fatto solo a misura degli uomini: fino a prova contraria lo spazio è naturalmente degli uomini, a meno che non si escogiti un’azione, uno stress aggiunto e uno stratagemma.
Ma del resto, le donne neppure vanno incluse come animali esotici da esibire, creature in estinzione o favorite da accogliere a corte grazie all’attenzione “magnanima” di un uomo. Di nuovo, infatti, vale la spiegazione più semplice: escludere le donne significa cancellarle, visto che formano almeno la metà dell’umanità – anche se entrando in una classe scolastica o universitaria potremo incontrare percentuali anche più alte del cinquanta per cento; è quando si sale nelle gerarchie del potere che i numeri e le carriere delle donne scompaiono.
La conseguenza di questa cultura normalizzata della discriminazione è che la questione del merito per le donne si è sdoppiata, come per la maratoneta nella foto. Essere brava significa infatti non solo correre bene, ma aggirare degli ostacoli; non solo avere dei meriti, ma anche meritarsi di poter essere brava, affrontare lo scandalo o chiedere il “permesso” di avere spazio e successo, rinunciare a una parte di sé (l’esperienza della maternità, per esempio), praticare e ostentare disprezzo verso il proprio stesso genere pur di essere accolta, o preferita; oppure essere strana, disubbidire, tentarle tutte per fare come un uomo – senza però avere mai la libertà di sbagliare come un uomo; superare, insomma, un bosco fitto di pregiudizi e frasi fatte, in cima alle quali, ieri come oggi, trionfa il luogo comune più ipnotico. È il principio per cui chi è contro le quote di rappresentanza starebbe automaticamente dalla parte del merito. Ecco, è tempo di dirlo senza paura: questa idea è falsa. Chi è contro le proporzioni e le mappe non squilibrate non si trova dalla parte del merito e del bene, ma, più che altro, del patriarcato.