Torna in una nuova edizione – l’introduzione è di Marco Travaglio, di cui pubblichiamo un estratto –“Mani Pulite”, il libro scritto 20 anni fa assieme a Barbacetto e Gomez (guarda il booktrailer). In edicola con PaperFirst, in libreria con Chiarelettere
Cosa resta di Mani pulite, la più grande inchiesta sulla corruzione della storia d’Europa e dunque del mondo, 30 anni dopo? La vulgata dominante dice che non resta nulla, perché la corruzione da allora è continuata e forse addirittura aumentata, sia pure in forme diverse. Ma un’indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo: altrimenti tutte le indagini sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi. Le indagini servono a perseguire quelli commessi prima e da questo punto di vista Mani pulite non ha eguali nella storia: per numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, di patteggiamento, di prescrizione e persino di assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto per i più svariati cavilli (leggi modificate in corso d’opera per cancellare le prove, negare ai giudici le autorizzazioni a utilizzare intercettazioni o addirittura tabulati telefonici, depenalizzare i rea- ti, cambiare le procedure, allungare i tempi delle inchieste o accorciare i termini di prescrizione, condonare condanne e pene). È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma questo non dipende dalle indagini della Procura di Milano e delle altre che la seguirono nell’opera di disinfestazione della vita pubblica: dipende dalle leggi fatte prima e soprattutto durante e dopo per assicurare l’impunità ai tangentisti. Leggi che fanno dell’Italia il paradiso dei delinquenti e l’inferno delle vittime.
Ma oggi, trent’anni dopo, possiamo dire che Mani pulite rimane scolpita nella memoria collettiva come l’unico serio tentativo di applicare l’artico- lo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E tanto basta per affermare che quel tentativo è perfettamente riuscito. Sono miseramente falliti, invece, quelli di farlo dimenticare o, peggio, di farlo ricordare come l’opposto di ciò che era: cioè come un’operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell’altra.
Trent’anni di campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste hanno fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario, ma non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica. Che ha continuato a cercare confusamente con il suo voto di cambiare il Paese contro i tentativi di restaurazione di chi voleva riportare indietro l’Italia al suo peggiore passato. Certo, in questo rifiuto del “vecchio” molti elettori sono incappati in tragici errori, scambiando per rinnovatori i peggiori cascami dell’Ancien Régime: Berlusconi, Monti, Renzi, Salvini. Ma presto o tardi quelle ubriacature sono passate, e in tempi sempre più repentini: se per guarire dal berlusconismo abbiamo perso vent’anni, tra l’ascesa e la caduta di Monti, Renzi e Salvini ne sono trascorsi due, al massimo tre.
Invece un movimento sinceramente legalitario, per quanto tumultuosamente confuso, come i 5Stelle dura da ormai 13 anni e ha profondamente cambiato il senso comune del Paese, oltre ad averci lasciato leggi fondamentali per la giustizia: la Severino (imposta da Beppe Grillo e dai suoi al Parlamento addirittura prima di entrarvi), la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione, il reato di voto di scambio politico-mafioso, il decreto contro le scarcerazioni dei boss, l’imminente riforma dell’ergastolo ostativo per gli stragisti non pentiti.
Nemmeno il crollo verticale di professionalità e di credibilità della magistratura, a mano a mano che i suoi Grandi Vecchi andavano in pensione lasciando i giovani senza guide né maestri da seguire, o con guide e maestri tipo Luca Palamara e Cosimo Ferri, è riuscito a cancellare dalla memoria degli italiani la distinzione fra guardie e ladri.
Riabilitato da politici e media trasversali fin da ben prima che morisse ad Hammamet nel 2000, Bettino Craxi resta per la maggioranza del Paese un simbolo della corruzione. Giulio Andreotti un simbolo della collusione mafiosa. E la recente rivolta dell’opinione pubblica dinanzi alla sola idea che Silvio Berlusconi potesse diventare presidente della Repubblica (idea che poteva avere cittadinanza soltanto nel “mondo a parte” della politica, ma non nella società civile), la dice lunga sul “vaccino” naturale che ci immunizza dal rischio di contagio. Anche grazie alla comica cialtroneria delle campagne mediatiche del Partito dell’Impunità contro ogni evidenza, logica, senso del pudore e del ridicolo.
Trent’anni di campagne negazioniste e revisioniste hanno fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario, ma non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica (…). Davigo è sotto processo a Brescia per rivelazione di segreti, “reo” di aver avvertito informalmente i vertici del Csm sulle mancate o ritardate iscrizioni di indagati da parte della “sua” Procura di Milano nel fascicolo sulla presunta Loggia Ungheria, svelata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara (informalmente perché, fra i personaggi accusati da Amara, c’erano anche due membri del Csm). Eppure nessun italiano di buona fede ha cambiato idea sulla sua proverbiale correttezza (…). Davigo, Greco, Boccassini, Colombo e De Pasquale, malgrado le loro polemiche incrociate, continuano a godere di un credito enormemente superiore a quello dei loro nemici. Così come Di Pietro, che nell’immaginario collettivo rimane un benemerito servitore dello Stato fatto fuori prima come pm e poi come politico (anche per i suoi errori), malgrado le cascate di fango che gli sono state riversate addosso, o forse proprio per quelle (…).
C’era una volta il “così fan tutti”, poi il “non l’ha fatto nessuno”, poi il “l’ho fatto, ma resto un presunto innocente e bisogna aspettare la Cassazione”, poi “la Cassazione non vale e bisogna aspettare Strasburgo”, poi le “toghe rosse” al servizio della Cia, le tangenti “a fin di bene”, gli scandali “a mia insaputa”… Ora gli ultimi refugium delinquentorum sono tre, ancor più esilaranti.
Il primo è: “E allora Palamara?”. Questo pm romano, già capo della corrente Unicost, già presidente dell’Anm e membro del Csm, da quando è stato indagato per corruzione, beccato all’hotel Champagne di Roma a spartirsi le nomine delle Procure della Capitale e di Firenze con i deputati renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri (magistrato prestato alla politica, che per fortuna non l’ha ancora restituito) e cinque togati del Csm, autore di due libri di smemoratissime memorie affidate all’autorevole Alessandro Sallusti, viene tirato in ballo per screditare qualunque indagine, processo, sentenza sull’intero orbe terracqueo. Naturalmente Palamara non c’entra mai assolutamente nulla, ma diventa un ottimo detersivo per tentare di squalificare qualunque iniziativa giudiziaria e di coprire i fatti gravissimi che ne emergono (…). La classe politica è riuscita a trasformare anche il più grave scandalo della magistratura degli ultimi 30 anni in un boomerang contro se stessa (…). Sapete che fine han fatto i commensali dell’hotel Champagne? Palamara è stato radiato dalla magistratura e i cinque consiglieri del Csm che parteciparono a quella cena si sono dovuti dimettere. Invece Lotti rimane deputato del Pd e Ferri deputato di Iv (…).
Il secondo ritornello è il “teorema dell’eterno complotto”: se vieni assolto, allora era un complotto; se vieni condannato, allora è un complotto. Un ri- tornello che ovviamente vale solo per gli amici di chi lo intona: la loro condanna è la prova che i giudici ce l’avevano con loro; la loro assoluzione è la prova che i pm ce l’avevano con loro, poi i giudici hanno messo le cose a posto, ma è sempre troppo tardi e c’è sempre qualcuno che deve “pagare i danni” al malcapitato per l’“errore giudiziario”. Perché si dà per scontato che, se uno viene assolto, non andasse neppure indagato né processato. Come se i processi non servissero proprio a stabilire se il sospettato di un reato è colpevole o innocente (…).
Il terzo refrain, corollario dei due precedenti, è quello degli “innocenti a prescindere”, anche se nella sentenza c’è scritto che sono colpevoli. Basta la loro parola, una sorta di autocertificazione. Oppure (…) qualche giornalista amico che trasforma la condanna in assoluzione. Tipo Pierluigi Battista, che il 14 dicembre 2020 scrive sul Corriere della Sera: “Flop di una stagione politico-giudiziaria. Assolti Filippo Penati… Roberto Cota… Pietro Vignali… E poi, per non dimenticare: assolto Nicola Cosentino… Assolti Raffaele Fitto… Beppe Sala… Renato Schifani”. Ne avesse azzeccata una. Penati è stato per metà assolto e per metà prescritto dopo aver giurato che avrebbe rinunciato alla prescrizione. Cota è in quel momento imputato in appello per la Rimborsopoli piemontese, in cui sarà condannato a 1 anno e 7 mesi per peculato per aver accollato ai contribuenti un paio di mutande verdi e altre spese private. Vignali, ex sindaco di Parma, ha patteggiato 2 anni per peculato e corruzione e ha risarcito 1 milione. Cosentino è stato condannato definitivamente a 4 anni per corruzione e lo sarà presto in primo grado a 10 anni per concorso esterno in camorra. Fitto è stato in parte assolto e in parte prescritto per finanziamento illecito. Sala è stato condannato e poi prescritto in appello per falso in atto pubblico dopo aver giurato di non volere la prescrizione. E Schifani non è stato mai assolto, per la semplice ragione che non è stato mai processato. Se poi il colpevole si suicida o muore per cause naturali, ecco la prova del nove della sua santità. L’ultimo caso è quello dell’ex consigliere regionale forzista del Piemonte, Angelo Burzi, che si è tolto la vita a Natale del 2021 dopo la condanna in appello a 3 anni per peculato nella Rimborsopoli piemontese. Tutti gridano che è un perseguitato per reati mai commessi (…). Nessuno ricorda che, per una parte delle accuse, aveva patteggiato un anno di reclusione in via definitiva. Quindi era innocente, ma non lo sapeva.
Ecco, sono scemenze come queste che hanno mandato in fumo trent’anni di campagne negazioniste e revisioniste condotte senza risparmio di mezzi ed energie. E, per l’eterogenesi dei fini, hanno sortito l’effetto opposto: enfatizzare la grandiosità storica di Mani pulite e fissarla per sempre nel dna di ogni cittadino, a imperitura memoria delle due Italie contrapposte. Quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta. E quella che lo spera con tutto il cuore.