Lunedì, Giuseppe Lenoci, di 16 anni, è morto dopo che il mezzo su cui viaggiava è finito contro un albero in provincia di Ancona. Giuseppe frequentava un corso di accompagnamento al lavoro che prevedeva una parte di lezioni in aula e una parte pratica con uno stage presso un’azienda. Lorenzo Parelli, 18 anni compiuti a novembre, è morto il 21 gennaio: nel suo ultimo giorno di lavoro (doveva tornare in classe) è stato travolto da un tubo metallico che lo ha ucciso sul colpo. Stava affrontando uno dei percorsi duali Scuola-Lavoro in un’azienda in provincia di Udine.
Il ministro Bianchi, esprimendo la sua vicinanza alla famiglia di Giuseppe, ha precisato che non si trattava di alternanza scuola-lavoro: “Stava affrontando un percorso di formazione professionale. Nel nostro Paese abbiamo troppi morti nei luoghi di lavoro”. Non c’è dubbio, certo è meglio che ai ben oltre mille infortuni mortali sul lavoro all’anno, non si aggiungano quelli dei ragazzi che fanno stage gratuiti presso le aziende, un sistema che serve soprattutto a fornire manodopera gratuita. Come spiega un comunicato della rete degli studenti “Non è possibile morire di lavoro a 16 anni. Questi fatti evidentemente ci devono far interrogare profondamente non solo sul rapporto fra scuola e lavoro, ma anche su quanto ci sia urgenza di risolvere il problema della sicurezza”. Non per nulla la mamma di Lorenzo ha detto, in attesa che l’inchiesta faccia luce su quanto accaduto a suo figlio, “Un solo fatto è certo. Lorenzo è uscito per andare a scuola e non è più tornato”.
Ora, mentre gli studenti si danno appuntamento venerdì in piazza per chiedere l’immediata abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, la politica convoca tavoli di revisione, confronto con le Regioni e messa a punto di soluzioni che evitino simili tragedie. Noi ai tavoli non ci crediamo molto, anche perché non è chiaro cosa altro si debba aspettare per prendere atto che il sistema non funziona. Quanti altri studenti devono morire prima che venga scardinato un meccanismo che ha come unico scopo il profitto (delle aziende) e lo sfruttamento (dei ragazzi)?
L’alternanza scuola-lavoro, che è cosa diversa dai percorsi professionalizzanti ma va nella stessa direzione, è stata introdotta nel 2015, con la riforma della “Buona Scuola” del governo Renzi, e prevede 400 ore di formazione obbligatoria dedicata al lavoro nell’ultimo triennio per tecnici e professionali e 200 ore per i licei. Ancora oggi si può leggere sul sito di Matteo Renzi che quella riforma rappresentava “una consapevole via di uscita dal modello teorico della riforma Gentile del 1923 (che Mussolini definì la più fascista delle riforme) di una scuola elitaria e separata dalla società del lavoro”. E qui casca l’asino (non è una battuta). Non solo perché la riforma Gentile fu un’ottima riforma per quell’Italia (e come diceva il professor Severino, era il fascismo a essere gentiliano e non viceversa), ma perché bisogna capirsi sulla funzione delle istituzioni formative. L’idea efficentista di una scuola in cui s’impara solo ciò che serve è disastrosa.
In un’intervista di qualche anno fa, Claudio Magris ci raccontò quest’assurdo con un episodio: “Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: ‘Hai mai baciato gratis una ragazza?’. Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività”. Il ministro Berlinguer diceva che gli studenti sono “clienti”, ora sono diventati manodopera gratuita per le aziende. La scuola forma cittadini, non lavoratori: c’è tutto il tempo, dopo, di imparare a lavorare. Prima bisogna imparare a pensare, anche per non farsi sfruttare.