Ho assai cara la mia tessera dell’Anpi e mi sono dedicato con passione alla costruzione del Memoriale della Resistenza italiana in cui abbiamo raccolto centinaia di testimonianze dei giovani che fecero la scelta partigiana. Pur ammirando i pensatori della nonviolenza, a partire da Gandhi, ho sempre pensato che l’ideale pacifista debba contemplare quelle circostanze storiche eccezionali nelle quali un popolo non ha altra scelta che difendere con le armi la propria libertà e la propria dignità. Me l’ha insegnato, per l’appunto, la Resistenza partigiana, e non dimentico che a guidarla furono molti comandanti che avevano ricevuto una formazione militare arruolandosi volontari nelle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna.
Orbene, di fronte a grandi città europee come Kiev, Odessa, Kharkiv, assediate da un esercito invasore che mira a rovesciare il loro governo democraticamente eletto, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a un caso di legittima resistenza popolare. Qualunque ragionevole considerazione sulle colpe pregresse che hanno favorito la guerra di aggressione scatenata da Putin merita certo di essere tenuta presente, e non criminalizzata, ma passa in secondo piano. Lo stesso dicasi riguardo alla presenza minoritaria, tra i combattenti ucraini, di formazioni che si rifanno a un etno-nazionalismo di matrice fascistoide, ciò che del resto riguarda pure le milizie filorusse del Donbass. Sono il lascito avvelenato di un secolo di guerre civili, carestie, stermini e deportazioni di massa. Ma le donne che fabbricano bottiglie molotov preparandosi al combattimento casa per casa sono ben altra cosa.
La scelta dell’Unione europea di sostenere con rifornimenti militari il governo di Kiev, per la prima volta nella sua storia, è certamente figlia di inadempienze del passato e difficilmente basterà a sovvertire l’esito di una guerra impari. Ma non a caso è sopraggiunta solo dopo che gli ucraini hanno dato prova di non essere disposti ad arrendersi all’aggressore. Il loro coraggio, la loro unità popolare, non ha colto di sorpresa solo Mosca, ma anche Bruxelles. E ha determinato la svolta. Anche l’annunciata disponibilità a prendere in considerazione l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea giunge con grave ritardo. Si tratterebbe di qualcosa di ben diverso dall’adesione alla Nato, in quanto non comprometterebbe un suo futuro status di neutralità. In passato Putin aveva mostrato di poter tollerare questo allargamento. Purtroppo non si è agito per tempo.
Agli zelanti propugnatori di un atlantismo fuori tempo massimo, dopo che la Nato ha rivelato al mondo la propria incapacità di garantire equilibri internazionali pacifici, seppur tardivamente l’Unione europea può offrirsi come alternativa per garantire un futuro di convivenza nel nostro continente. Ma ciò presuppone innanzitutto una scelta netta: stare dalla parte degli aggrediti contro l’aggressore. Anche se comporta dei sacrifici e, riconosciamolo, dei rischi.
Così come ho trovato insopportabili nei giorni scorsi le obiezioni all’applicazione di costose sanzioni economiche alla Russia (certo, costose anche per noi), allo stesso modo ritengo inevitabile fornire all’Ucraina tutto il sostegno di cui necessita. L’alternativa sarebbe assistere impassibili alla violenza che si abbatte sui nostri vicini di casa. Riconoscere il loro diritto alla resistenza senza aiutarli sarebbe non solo ipocrita ma autolesionista. “Oggi a noi, domani a voi”, gridavano sabato in corteo a Milano centinaia di immigrati ucraini.
Ci ha dato una lezione di moralità il presidente Zelensky quando – ai diplomatici americani che gli offrivano un’evacuazione a Leopoli o all’estero – ha risposto: “Mi servono munizioni, non un passaggio”. Augurarsi che non faccia la fine di Salvador Allende senza muovere un dito, sarebbe da miserabili.