Abbiamo letto dodici volte (nel senso letterale del termine, non tanto per dire) il pezzo di Barbara Spinelli, pubblicato sabato sul nostro giornale e retwittato dall’Ambasciata russa (reato di citazione russa). Da giorni le piovono addosso accuse di ogni genere, talvolta con pudica circospezione, che immaginiamo dipendere dalla sua autorevolezza (anche gli opinionisti-juke boxe hanno reminiscenze di autoconsapevolezza) e talvolta perfino con squallide capriole genealogiche (qualcuno l’ha accusata di tradire la memoria del padre Altiero).
Di tutte le nefandezze di cui è accusata non abbiamo trovato traccia nel suo scritto. Peraltro al centro della pagina il catenaccio del pezzo spiegava benissimo il senso di tutto: “La prevedibile aggressione russa e la cecità di Stati Uniti e Unione europea: ecco perché cominciare ad ammettere i nostri errori è il primo punto per costruire la pace”.
Non risponderemo alle obiezioni sulla difesa della ditta perché questo disgraziato giornale, così pieno di difetti pubblicamente vivisezionati ogni dì, ha il grande pregio di difendersi da solo (ed è sicuramente il peggiore in commercio, eccetto tutti gli altri). Ma qui il punto non è il Fatto. Il punto è quanto in basso siamo caduti se a un direttore d’orchestra viene chiesta la pubblica abiura per poter dirigere alla Scala, e se l’Università Bicocca (poi tornata sui suoi passi) voleva rimandare un corso di Paolo Nori su Dostoevskij (Signore perdonali) per “evitare polemiche in un forte momento di tensione”: non è Il sogno di un uomo ridicolo, è proprio successo. Marc Innaro, corrispondente da Mosca per la Rai dal 2014, viene messo all’indice per aver guardato una cartina geografica: “Gli europei scontano una totale assenza di memoria storica e di comprensione delle dinamiche più profonde che ha subito la Russia nell’ultimo secolo e negli ultimi trent’anni”, ha detto al Tg2 Post. “Basta guardare la cartina geografica per rendersi conto che chi si è allargato negli ultimi trent’anni non è stata la Russia, è stata la Nato”. Tanto è bastato per chiedere la sua rimozione: raus! Oltre il buono/cattivo non c’è nulla: brutto Putin!
L’intolleranza al pensiero critico forse dipende dal fatto che la complessità impegna troppo l’attenzione in un’epoca in cui la riusciamo a dedicare solo al cellulare (e ai fatti nostri). Questo ha prodotto un dibattito pubblico infantile, ridotto alla libertà di pensierino del fu maestro Arbasino: il guaio è che ci va bene così. Capire e sapere non sono più un’aspirazione: ci basta ascoltare qualche frasetta di pseudo buon senso (qualcuno potrebbe dire che è una buona cosa uccidere i bambini? O invadere una nazione?). È incomprensibile l’ostilità all’ascolto e al confronto. È incomprensibile che non si vedano i rischi di questo totalitarismo del pensiero, che si rinunci alla curiosità di sapere di più, di studiare, capire e ricordare.
Per esempio ricordiamo che l’Italia, all’articolo 11 della Costituzione, “ripudia” la guerra? Meuccio Ruini, in una seduta della Commissione dei 75 nel marzo 1947, disse che il verbo scelto (preferito ad altri, come “condannare”) ha “un accento energico e implica così la condanna come la rinunzia alla guerra”. Ci possiamo ancora dire pacifisti senza passare per filo putiniani, per gente che plaude alle invasioni e ai genocidi? Ormai ogni tentativo di discorso articolato incappa nel fastidio di chi ha sempre un “fate presto” da sbandierare come ultima, incontrovertibile, istanza e che dunque non ha tempo per ascoltare un’idea altra? “E nella guerra per la pace vince sempre il voto moderato”, recita una vecchia canzone dello Stato Sociale (contenuta nell’album Turisti della democrazia). S’intitola “Mi sono rotto il cazzo”.