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Ucraina. Il grande cuore di Milano contro la guerra di Putin figlia del ritardo culturale

7 Marzo 2022

Dopo il Covid, l’invasione russa in Ucraina. Davanti al computer rimugino sui tempi. Con rabbia, con dispetto, con dolore. E si fa largo nella mente una teoria che in gioventù mi era assai piaciuta. Sociologica, poiché anche i sociologi ogni tanto ci azzeccano. Si chiamava del “ritardo culturale”. Diceva pressappoco questo: che la tecnologia è figlia della nostra cultura, del nostro cervello, ma poi sfugge al controllo dell’una e dell’altro. Se ne va per i fatti suoi, e ne viene fatto l’uso peggiore, perché cervello e cultura civile, che progrediscono come lumache, non sono adeguati a maneggiarla. La dimostrazione l’abbiamo avuta, a livello di massa, con l’auto, con la televisione, con la medicina, con i telefonini. E anche, a livello di élites politico-militari, con l’atomica e un infinito repertorio di morte.

Ora il ritardo culturale ci piomba addosso, tutto insieme, dalla chimica cinese (ma sì…) e dagli arsenali russi. Prima una pandemia di due anni che mette in ginocchio il mondo e ora la minaccia della terza guerra mondiale o di “quel che ancora non abbiamo visto nella storia dell’umanità”. Cina e Russia unite nella lotta. La vera alleanza c’è già stata, al di là dei piani segreti per l’Ucraina, in questa tragica dimostrazione a due voci della validità di quella teoria sociologica.

Perciò ho provato sgomento e commozione fino al pianto, sissignori, vedendo l’altra sera i giovani ucraini che manifestavano in piazza Duomo. Mentre il cielo passava dal blu cobalto al nero, tra le grandi luci dei due portici stavano loro con le luci delle candele, un lunghissimo striscione giallo-blu a ferro di cavallo, zaini e sciarponi per affrontare la serata, i capelli biondi di tante ragazze (la maggioranza), i volti fieri non esibiti ma neanche sfuggenti, i canti del loro popolo, lo slogan ritmato in italiano: “Ucraina è Europa”. Tanti avevano i volti rigati dalle lacrime.

Sapevano di fare qualcosa di importante, l’unica possibile di fronte all’angoscia per le proprie famiglie e case, di fronte al terrore bastardo che arriva dal Cremlino. Mi è tornato in mente come un lampo quel che a me, bambino delle scuole medie, disse mio nonno materno raccontando la ritirata di Russia. “Quando siamo arrivati in Ucraina ci hanno sfamato, ci hanno dato da dormire. Quello è un popolo generoso”, mi spiegò perfino con una punta di nostalgia. “Libertà, libertà”, gridavano ora i giovani ucraini rivolti agli italiani per riaverne generosità e solidarietà. Tutto per loro può essere importante. È venuto con pudore a ringraziarmi un mio studente per un post su Instagram, pensate a quanto sia minuscolo ciò che li aiuta moralmente a resistere.

E solidarietà a Milano ne trovano tanta. Chi pensa (il ritardo culturale, appunto…) di potere parteggiare per Putin per ritagliarsi un ruolo politico in nome del Nord si troverà con un pugno di mosche. Perché le terre di Lombardia in queste occasioni riscoprono la pietà e la solidarietà. La chiesa ortodossa di Milano non riesce più a dare spazio a tutte le offerte che arrivano, mi dice chi c’è andato. “Hanno preso solo i pannolini e gli omogeneizzati”, ha spiegato una giovane mamma, “per i vestiti pesanti bisogna andare alla chiesa di via Meda 50”. “Chiedono cibo e medicinali, ora vado in farmacia”, mi ha detto una studentessa. “C’era una folla straboccante, non hai idea delle macchine in fila per scaricare”, racconta mia figlia. E io, che – ammaestrato dai fatti – sono sempre stato diffidente verso queste catene di solidarietà impersonali, questa volta voglio crederci, “devo” crederci. Non si tratta solo di scegliere da che parte stare (per quello basta Uomini e no di Vittorini), ma di aiutare un popolo a far fronte alla ferocia belluina e impazzita della scienza e del potere. E alle conseguenze delle nostre viltà e meschinità politiche, che il cielo le maledica.

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