L’emergenza sanitaria, la crisi economico-sociale, la crisi climatica, da ultimo anche la guerra e le sue conseguenze dimostrano il totale fallimento di un modello economico e sociale che ha anteposto gli interessi delle lobby finanziarie ai diritti delle persone, fondato sul progressivo svuotamento dei poteri delle istituzioni democratiche e nella trasformazione della propria funzione da garante dell’interesse generale a facilitatrice dell’espansione della sfera d’influenza dei grandi interessi finanziari sulla società, basato su una forte spinta alle privatizzazioni oltre che su un’errata allocazione delle poche risorse disponibili riducendo quelle a sostegno dei servizi essenziali. Una società basata su tale pensiero unico non può garantire protezione alcuna ed entra in piena contraddizione con la salvaguardia della vita stessa.
Nonostante ciò, il governo e in particolare il premier Draghi persevera lungo tale strada come se non avesse mai abbandonato gli abiti del promotore delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta. Abiti indossati quando nel 1992 salì sul panfilo “Britannia” per presentare ai banchieri della City il potenziale economico delle aziende statali italiane.
Oggi, dopo la pesante sconfitta subita con i referendum del 2011, la parola d’ordine è diventata “concorrenza” e non si riesce più a farla passare come un beneficio bensì la si impone. Ecco da dove discende il disegno di legge per il mercato e la concorrenza approvato dal governo e attualmente in discussione al Senato. Un provvedimento da cui emerge un approccio fideistico che individua come principio di riferimento l’affidamento al mercato quale unico regolatore sociale.
Il 22 marzo si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua e dovrebbe essere l’occasione per svolgere un’onesta riflessione sugli effetti di queste politiche trasversalmente condivise negli ultimi vent’anni che hanno fatto dell’acqua una merce e del mercato il punto di riferimento per la sua gestione, provocando degrado e spreco della risorsa, precarizzazione del lavoro, peggioramento della qualità del servizio, aumento delle tariffe, insufficienza degli investimenti, diseconomicità della gestione, espropriazione dei saperi collettivi, mancanza di trasparenza e di democrazia.
Non è un segreto che gestire l’acqua risulta essere un business molto redditizio. In Italia il giro di affari annuo è calcolato in oltre 8 miliardi di euro. Inoltre, gestire l’acqua vuol dire non avere rischio d’impresa poiché i profitti, anche dopo il referendum del 2011 che li aveva aboliti, continuano ad essere garantiti da una serie di meccanismi insiti nel metodo tariffario. Gestire il servizio idrico significa gestire un servizio in regime di monopolio poiché l’acqua è monopolio naturale e pertanto non sussiste possibilità di concorrenza. Per questo va stralciato l’articolo 6 del DDL Concorrenza il quale costituisce lo strumento tramite cui s’intende assoggettare definitivamente l’acqua e i beni comuni alle regole del mercato e del profitto.
Attraversiamo un periodo in cui si rende necessaria una svolta radicale per costruire una società fondata sul prendersi cura, sulla riappropriazione sociale dell’acqua e dei beni comuni, sulla gestione partecipativa di tutti i servizi pubblici. Di tutto ciò se ne parlerà approfonditamente oggi (22 marzo) ad un convegno “Il DDL concorrenza e la sorte dei servizi pubblici locali” che si svolgerà presso il Senato (Sala Zuccari) in cui si confronteranno giuristi, rappresentanti istituzionali e di forze politiche e attivisti del movimento per l’acqua. Viviamo tempi straordinari e si tratta di attrezzarci di conseguenza per liberare il presente e riappropriarci del futuro, consapevoli che il tempo è ora.